una raccolta lentissima che vuole sviluppare l'intento riconosciuto dai commenti in studio a questo genere di poesia. ci sto provando, non è per niente facile
mi sento nonna
mi sento come il diametro di una casseruola
chiusa in un cerchio che mi rimette al fuoco
ai debiti, ai debitori, all’ora in cui
la sedia mi direbbe fermati -o meglio
accomodati, prendi un caffè
riprendi fiato, prenditi il tempo
come se non stessi seduta abbastanza
così circolare, così concentrica
piatta sul fondo. una schiena assuefatta
al nulla per cui valga la pena
se non di stare qui, a scrivere un diario
da regalare a chi può crederci ancora
senza la paura che carica di gocce
solo per meritare un po’ di apparenza
e lasciarti detto -bambino mio
come usare le forbici, il significato
di opporre la mano alle lame
per ritagliare un quadrato che sia una casa
un triangolo che sia il tetto
per comporre una città, con la scuola
il municipio; ancor di più un rione con l’oratorio
per volersi bene e coltivare il basilico
nella terra smossa dietro le reti del campetto
o per costruire un aeroplano di cartone
per volare, senza comprare la vita,
tra un’apertura d’ali e una caduta
dovuta al modo di poggiare le mani
di alzare gli occhi a guardare le stelle
perché la tua domanda
comprende questa terra
che ancora ci appartiene
disegnando orologi
disegnando orologi la vita è perfetta
si sceglie una guida, la sequenza
si invertono i passaggi, come l’ordine degli addendi
che nulla deforma se la matita
sbanda e si attacca al righello
se la mano trema e il cerchio la tiene
e tu e io leggiamo la grande esattezza delle ore
che non sempre corrisponde alla danza degli ippopotami lievi
ma è una marcia, coi passi contati
di storie che restano involucri, coreografie sciolte come cani
ma la casa è il quadrante che contiene il mondo
la casa che sta alla neve, come tu, oh bambino
stai al campo di grano. e i “grandi”
sono il bel tempo o le tue intemperie
il miracolo o la tua miseria
il tuo vento, la tua inondazione
e certe svolte sono solo spighe vuote
che aprirai nel tempo
raccogliendo la vita di quel campo di grano
che non ha dato moltiplicazioni
ma solo spiga che regge spiga
sotto un vento che ti atterra a chiazze
oppure sotto un fiume che ti corica , quando
esce dal corso per l’umana negligenza
il corpo umano
(la rileggo dopo tanto tempo e mi sembra anche molto da modificare)
il corpo umano, quello che si studia a scuola
seppure statico risulta saltellante
lo vediamo su un libro regalato a Natale e poco dopo
in una raccolta di CD; nel viaggio dentro di Piero Angela
nell’omino anatomico, gratis con la collana De Agostini
lo puoi montare e rimontare, puoi
invertire i femori ed i piedi
prendere in mano gli organi e le ossa
sbattere la mandibola, aprire il cranio
e togliere il cervello, stringerlo nella mano
che se fosse il cervello dei grandi
si potrebbe risciacquare con l’aceto o lavare
di nascosto in chiesa, nell’acquasantiera
e poi portare ad alta quota e caricarlo d’aria pura
per diluire questo DNA del secolo
che tende a non far credere più alla geografia umana
dove gli stati sono mani e piedi e braccia e gambe
le strade sono nervi, e vene che portano ai paesi
le istituzioni gli organi ed i sensi, le vacanze
i polmoni i parchi e la montagna, le terme sono i reni
il fegato è il dolore e l’intestino, la sua filosofia
la tua casa è il cervello, la tua famiglia è il cuore
ma se capita di passare da te con google maps
le finestre sulla strada sono chiuse
come gli occhi che abitano fuori dalle geografie
nel vaso di vetro
le monete riposte in un vaso di vetro
incuriosiscono i bambini
per le forge strane, ignote, lontane
tu guardi il colore, il disegno, la data
trovi quella di mamma, quella di papà
di nonni, bisnonni, delle grandi guerre
e da domanda poi nasce domanda
sugli universi che nasconde il tempo
i vari paesi, i loro re, le dittature
chiedi di quello coi baffi quadrati
che sterminò sei milioni di ebrei
ti resta sulle dita l’unto del metallo
un’impronta digitale antica
i tatuaggi che compongono il viso
di un mondo fiorito di monete sporche
dovrei pulirle ad una ad una col viakal
ma hanno la storia patinata
sul dritto, sul rovescio e sarebbe
come togliermi le rughe dal volto
invece, mio amore, da nonna
voglio apparirti nonna senza falsità nei capelli
senza il botox a confondere le tue cronologie
quelle naturali da miliardi d’anni
non i meccanismi sconvolti
dalla miseria umana che si vuole elevare
ad immortale (pre)potenza
la vecchia credenza
c’è troppo mondo uscito da questa casa
gli anni del gioco, i quaderni di scuola
la scatola rossa del pallottoliere
che fu ponte tra le nostre generazioni
non resta più traccia della giovinezza
nell’essere mamma, ora che il bisogno
è di guardare, di sfogliare, di farsi meraviglia
di quel passato che sarebbe il mio futuro
in questi giorni inzuppati di pioggia
oggi il ricordo insiste
sulla vecchia credenza della nonna
a tutte le cose là dentro
diventate piccole morti silenti
che urlano nel pensiero
oh, se qualcuno l’avesse conservato
quell’involucro così mortificato
gli darei la nuova vita che ho scoperto
di avere tra le mani
senza perché
ricordo le stanze, i muri, lo spessore
il davanzale così largo
da essere un tavolo per i bambini
con le tovagliette a quadri
i piatti sbreccati, i cucchiai di alpaca
e quel risotto giallo che appannava i vetri
non c’erano domande dentro
per esempio la marca dello zafferano
la carne usata per il brodo
la stagionatura del parmigiano
il sapore, mai più ritrovato
non aveva un perché. era una danza
tra l’ultima musica del camino
e la primavera, al di là appena
con la fioritura dei sambuchi
filastrocca di capodanno
torna la pagina nuova
la paura, la voglia di avventura
la punta alla matita
resto a pregare un po’ diversamente
ché c’è di mezzo il mare
tra braccio e mente, la forma del cuore
la ruggine dentro le spalle
contundente
non c’entra niente
tutto sta rispettare il margine
il quadretto
munirsi di gomma da cancellare
-lasciarsi cancellare
per non morire gialli, in un film
in bianco e nero dov’è disegnata
una gabbia, sebbene aperta
sul mezzo foglio bianco sporge la testa
con i capelli come raggi
in un fumetto
il tuo sorriso
sotto i passi resta la casa
il suo silenzio parla dentro le cose
si chiude con le voci andate una ad una
lei le raccoglie come una famiglia
stretta per mano per sguardi
d’occhi prima spenti poi accesi
anche nella lontananza
tu non devi piangere
è dappertutto il tuo sorriso
argentino, vicino sempre
qui, nella mia felicità
la noia
senti la noia, ma non sai
(non lo sanno neppure i grandi)
che dalla noia può nascere un romanzo
quello di un paesaggio immobile
che tace nei tuoi occhi
mentre il giorno va verso il buio
e s’accendono insieme tutti i lampioni
ma le luci della case, no
quelle lo fanno una alla volta
alcune insieme, alcune raramente
come la storia di chi ci vive dentro
espressa nella sua condizione
il lavoro, un bambino appena nato
i compiti da finire, l’anziano da curare
e si accendono i fari nel villaggio
per chi arriva, per chi parte
lampeggia un cancello
l’insegna al vecchio ristorante
resa fluorescente dalla nuova gestione
la tua noia si perde nelle storie
lette da una terrazza, un romanzo
visto in cinemascope
la malinconia
chiamiamolo malinconia
quello sguardo un po’ spento
dopo la prima notte di vacanza
è come se avessi negli occhi
il dubbio delle poche cose
che intorno premono il vuoto
dei giochi mai pronti da giocare
o del deserto sempre più deserto
imparerai ad ascoltare
quell’angolo di bosco
(noi parlavamo di anima)
che a guardarlo viene paura
nel punto più scuro
tra le radici che sfiorano le tue
potrai fare incontrare
il tuo burattino
con la sua parabola
la solitudine
sto bene in questo albergo vuoto
musicato dai ceppi nel camino
dove il mondo si legge
attraverso gli intagli delle tende
eppure nel silenzio c’è tutto, il giro del mondo
vedo il mio passo dentro un grande specchio
e studio una postura principesca:
dritta la schiena, lo sguardo avanti
parlo alle stanze, annuncio di te
che arriverai domani
che
che quando il nonno andava nella vigna
lo seguivo sempre (uno scrittore coi fiocchi,
uno che pubblica libri per “la scuola”, mi diceva
- chi inizia la frase con il ”che”, è uno che in scrittura
c’ha le palle).
2uindi (a me piace la qu maiuscola
a forma di due) amavo la vigna. il fascio di salice
che mio padre portava alla cintura. il track
del forbicione sulle potature, l’ardore del sole
sullo zolfo. le galline tra un filare e l’altro
che acchiappavano grilli. poveri grilli
(diremmo ai nostri giorni) ma anche poveri noi
a non mangiare più le uova di galline
che hanno beccato i grilli
[Modificato da fil0diseta 09/11/2017 11:12]