Falkenna
00lunedì 6 luglio 2020 14:09
Sedevo tra i rami freddi su un albero.
Ero senza vestiti, soffiava vento.
Tu eri lì sotto, con un cappotto pesante,
il cappotto che hai adesso.
E quando l’apristi, scoprendoti il petto,
tarme bianche presero il volo, e ciò che dicesti
in quel momento cadde a terra in silenzio,
la terra ai tuoi piedi.
La neve scendeva dalle nuvole fin nelle mie orecchie.
Le tarme del tuo cappotto volarono nella neve.
E il vento, sotto le mie braccia, sotto il mento,
piangeva come un bambino.
Non saprò mai perché
le nostre vite volsero al peggio, e neanche tu.
le nubi mi affondarono nelle braccia e le braccia
si sollevarono. si sollevano ora.
Oscillo nell’aria bianca invernale
e lo strido dello storno mi si stende sulla pelle.
Un campo di felci mi copre gli occhiali: li pulisco
per poterli vedere.
Mi giro e le foglie mutano colore con me.
Le cose non sono solo se stesse in questa luce.
Tu chiudi gli occhi e il cappotto
ti cade dalle spalle,
l’albero si ritrae come una mano,
il vento si adatta al mio respiro, ma nulla è certo.
La poesia che mi ha rubato queste parole dalla bocca
potrebbe non essere questa poesia.
Falkenna
00lunedì 6 luglio 2020 14:29
La prima cosa che mi colpisce, in questa poesia, è che questa
scena è senza parole, tutto accade nei movimenti e nelle
sensazioni.
Le frasi dette sono tarme bianche che cadono pesantemente per
terra, le frasi svuotate di suono diventano cose luminose che si
perdono. L’unico riferimento ad una storia vissuta è un accenno di
sfuggita (non saprò mai perché le nostre vite volsero al peggio, e
neanche tu). Ma ogni ulteriore riferimento a vicende reali sfuma
nell’indeterminatezza dello scenario.
I suoni (il piangere del vento, lo stridio dello storno) si
accordano con la visione dei due, l’uomo e la donna, persi nella
lontananza ovattata di un vuoto-di-senso desolato.
Uniche presenze, le sensazioni che il corpo conserva. Il freddo
dell’aria invernale sulla pelle. Le nubi che affondano nelle
braccia (una sensazione visivamente evocata). Le felci che
impediscono la vista. Eppure nemmeno le sensazioni sono certezze:
le foglie mutano, le cose non sono più se stesse, l’albero si
ritrae. Non resta neanche la solidità di un ricordo, perché perfino
la narrazione non è vera, si ritrae da ogni pretesa di afferrare la
realtà e lascia solo la stessa traccia impalpabile e slabbrata che
i sogni lasciano al risveglio.
Perché questa poesia mi piace tanto. Perché è come un quadro di
Magritte, in cui ogni cosa è situata in maniera “aliena” nei
confronti delle altre, e gli elementi classici di una poesia
(in questo caso, di una poesia sulla lontananza e sulla perdita: il
gelo, il silenzio, le nuvole, gli uccelli) sono combinati fra loro
secondo una logica non terrestre, una disposizione spaziotemporale
che sembra una intersezione fra mondi diversi, una apparizione
oltre la soglia di un’altra dimensione.
Mi affascina e mi disorienta perché queste cose semplici si
compongono in combinazioni irreali, le tarme escono dal petto, le
nuvole penetrano nel braccio..... Questo disorientamento genera
stupore, abbandonarvisi genera incanto ma anche lo sgomento di non
sapere più in quale delle tante realtà possibili ci si trovi in
quel momento.
Ma in fondo quando si legge una poesia di Mark Strand basta
lasciarsi alle spalle l'dea di realtà, diventare un aquilone e
volare nelle sue visioni.
❤
fabella
00mercoledì 8 luglio 2020 07:28
grazie per la lettura!
bellissima la poesia, a apprezzato ancor di più il tuo commento che ci immerge nella tua sensibilità e nel meraviglioso viaggio delle tue parole, tra le parole di questo poeta.