Iole Toini

fil0diseta
00lunedì 14 dicembre 2015 16:13

(2009)





(2009)

Festa latina

C’era cuba, il brasile, donne con le curve alte
uomini coi capelli bianchi, la voce che svuotava il sangue,
musica gialla come la senape, facce negre
che tagliavano le reni.

Ho comprato degli orecchini
azzurri come una finzione.
Ti stanno bene negli occhi, ha detto Simona.
Lei è rossa/una cerva/ bella oltre misura.
Gli uomini le salivano dal mento;
lei li lasciava entrare dalla bocca.

Ho indossato i miei orecchini.
Barbara mi ha schioccato un bacio. Un travestito
ha invitato Stefano a ballare. Ma lui aveva
paura di cedere alle sue mani aperte.
Indossava calze a rete, la gonna
appena sotto le natiche. Era bellissimo; più
vero di me, di Simona, più vero di Stefano,
dei nostri sogni che balbettavano
fra le gambe della lambada.
Coi capelli toccava il filo
delle luci. Prendi me, gli volevo dire
mentre il mio odore di fieno
mi inchiodava ancora e ancora al muro.

*

Il muratore

L’uomo aspettava davanti all’agenzia immobiliare.
Voleva una casa per sé, dei muri caldi e un divano
dove lasciare l’impronta del suo lavoro
senza preoccuparsi di imbrattare i cuscini.
La moglie lo aveva lasciato e i figli li avrebbe
visti ogni due settimane.
Aveva la barba lunga e un segno
scuro sulla guancia sinistra. Dentro le mani, la polvere
delle case che costruiva.
Non sapeva come muoversi dentro quel posto senza odore,
che vendeva le case o le affittava a chi non ne aveva nessuna.
Si dondolava sulle gambe.
Parlava in dialetto, dando del tu come fanno i bambini.
Si è seduto sull’orlo della poltrona che gli hanno indicato,
le mani impiegate sotto il tavolo. Forse aveva vergogna
dei segni neri sotto le unghie.
Ascoltava e ogni tanto annuiva. Con gli occhi
che non stavano fermi cercava la porta.
La moglie lo aveva lasciato, forse perché
gli piaceva farsi un goccetto
all’osteria dove vanno gli uomini che hanno
capelli unti, gli occhi sbeccati e ridono
quando sono pieni di vino
o piangono che non li ferma nessuno.
La moglie forse gli aveva dato dell’ubriacone, uomo senza
famiglia e forse lui le aveva mollato una sberla, le aveva detto parole
che si imparano quando si resta soli, o invece
erano anni che si parlavano solo
per questione di soldi, di figli, di come fare
a mandarli a scuola che non ci volevano andare,
tanto a cosa serviva. Comunque io questo non lo so,
so solo che l’uomo ha preso
le chiavi della casa che per un poco
sarebbe stata la sua.
E’ andato via di corsa.

*

il vecchio

Le gambe secche dondolavano dalle sbarre,
i ferri gli segavano le cosce scheletrite.
Il vecchio premeva i polsi sulle coperte; remava la sua onda,
cercava l’equilibrio rimasto sotto le lenzuola dove poco prima
era disteso, gli occhi al soffitto.
Muoveva i piedi avanti e indietro, spostandosi piano lungo le aste.
Era uno scoiattolo che stava per saltare dall’albero.

Ho pensato ora cade.
Volevo andargli vicino.
Ero un niente che gli soffiava contro.
Chiamo l’infermiere, ha detto il ragazzo di fianco al suo letto.
Lui ha cominciato a balbettare qualcosa.
Forse pensava a suo figlio, alle mucche, al formaggio
da cagliare, alla pipa lasciata sulla credenza.
Gli ho toccato il braccio.
Forse non mi ha sentito.
L’ho tenuto come si tiene la paura in fondo alla gola.
Era di vetro mentre si lanciava verso la terra.
Con una mano si è aggrappato al comodino,
con l’altra frugava l’aria come cercasse
sul fondo di un cassetto.
Il pannolone gli penzolava dalle cosce.
Le gambe molli, senza carne, uscivano dalla plastica come aringhe.
E’ entrato l’infermiere. Lo ha preso per un braccio.
Cosa-fa-in-piedi-Franca-vieni-a-aiutarmi-questo-è-sceso-dal-letto.]
Plof, lo hanno sollevato, disteso bello diritto, plof, richiuso dentro.
Quando-viene-tuo-figlio-ti-porta-a-fare-un-giretto.
Franca gli ha tirato il lenzuolo fino sotto al mento.
Lui stava zitto, guardava il punto che c’era dopo il soffitto.
La settimana seguente il letto era vuoto.
Forse era tornato a casa.

*

troppa poca parola

Finita, ieri, il mio cuore ti disse.
E ancora inizio non avevi
e ancora mai nell’inizio non sei
e sempre sei l’annuncio dell’inizio.
– A. Zanzotto –

Per il dislivello del fiato, per lo sgomento,
nell’odore incensato della salita, nella chiave
che albeggia la carne, le arnie a raccolta,
gli indizi, l’inclinazione alla guerra.

Nella vigilia della dolcezza, la perdita della coscienza.

Vendicata parola, vendicato
il tuo nome, disfarsi di cielo che apre
alla strage, la frase rossa sul dorso,
la presa alle reni, alture, il midollo, il golem
che inneggia al verbo amazzonico come un utero
scagliato di luce.

Io dormo sul masso del fieno, sui morbi grassi
che gemmano storie, e le fedi spuntate. Innesti
su stanze e vuoti. Per te bella matrona lego
le gambe al tavolo, lego i capelli, crisma
di amore babelico. E’ terrore
la commozione del prato, il fondo vivo
dopo la partitura del corpo impronunciato.


(2015)

Il bosco rideva se lo guardavo

Il bosco rideva se lo guardavo
nell’ora aperta dove il cuore frangeva
perduto, solo.
E nella sembianza di non essere –
cioè di essere pienamente e niente –
poteva – il cuore – forse poteva,
come la foglia accesa, come il taglio
della vallata o il masso – altro seguace della vetta –
come l’oro che ancora per un tratto
lasciava il volto arreso alle pietre.

E io a voler dire – a voler sapere
dire – la sagoma alla meraviglia assunta a fiore,
trascesa a radice – o tronco – o vetta,
discesa a confine certo del sì –
io – a voler percorrere a gola quel cespo
che aggancia il silenzio,
che me confonde – il sopra, il sotto,
che sua opera è fare,
che in me immensamente e ancora –


Dio ranuncolo

Dio ranuncolo fammi crescere dall’ala
della montagna dove la vanga non può conficcarsi
e l’aria esiste per i prati che ridono
e tutto è smisurato
di bellezza anche la terra pregna di fango
che sgrava la vacca, che fa morire il vitello

fammi essere quel vitello
che marcisce
per concimare le radici del tuo esempio giallo


Piazza Duomo

Piazza Duomo e il podere della mia pancia
che continua a credere ai tordi, alle lumache,
agli svincoli della pelle con una chiarezza
che mi intimorisce. Senza dubbio
ho avuto qualche trauma infantile.
Ne sono certa quando guardo ragazze
che attraversano il parco
sotto gli occhi famelici dei castani:
nel bel mezzo della falcata del sole
questi tipi gorgogliano la loro più vera
somiglianza con l’uomo calvo.

Ma la piazza non se ne cura, i ciottoli
continuano a farsi calpestare da persone ignote ai più,
i bar si sporgono, fanno l’occhiolino interessati;
tutto noiosamente comune all’ordine tanto caro ai piedi.

Ma torno alle mie certezze, tipo che da qualche parte rinascerò prato.

Intorno intanto altri alberi viaggiano spregiudicati
dichiarando la mia distanza dalla loro altitudine
direttamente proporzionale alla certezza di esistere.


delle cose scoperte

Splendono. Quello che si può dire.
La voce dei noccioli freme contro la gola della rugiada.
Quando l’erba schiude l’oro, si fanno arrese al silenzio.
Per quell’esile suono di sconfitta, avvengono.
Ora stringono le bocche. Sono nodi da percorrere.
Che sia bellezza la sottrazione!
Il cielo vien giù sui mattini, scuote le finestre fino ad aprire il dolore.
Quando non sapranno più nulla e avranno tolto ogni velo al costato,
infioreranno i corpi dei rovi per le ghirlande che si porranno sul capo.
Quando non sapranno più nulla, quando insieme non sapranno più nulla,
la limpidezza – intera – avverrà.


fil0diseta
00lunedì 14 dicembre 2015 18:48
un mio video per Clepsydra Edizioni (2010), con letture di testi tratti da "nominato rosso" di Iole Toini




cripaf
00mercoledì 16 dicembre 2015 07:46
Il muratore

L’uomo aspettava davanti all’agenzia immobiliare.
Voleva una casa per sé, dei muri caldi e un divano
dove lasciare l’impronta del suo lavoro
senza preoccuparsi di imbrattare i cuscini.
La moglie lo aveva lasciato e i figli li avrebbe
visti ogni due settimane.
Aveva la barba lunga e un segno
scuro sulla guancia sinistra. Dentro le mani, la polvere
delle case che costruiva.
Non sapeva come muoversi dentro quel posto senza odore,
che vendeva le case o le affittava a chi non ne aveva nessuna.
Si dondolava sulle gambe.
Parlava in dialetto, dando del tu come fanno i bambini.
Si è seduto sull’orlo della poltrona che gli hanno indicato,
le mani impiegate sotto il tavolo. Forse aveva vergogna
dei segni neri sotto le unghie.
Ascoltava e ogni tanto annuiva. Con gli occhi
che non stavano fermi cercava la porta.
La moglie lo aveva lasciato, forse perché
gli piaceva farsi un goccetto
all’osteria dove vanno gli uomini che hanno
capelli unti, gli occhi sbeccati e ridono
quando sono pieni di vino
o piangono che non li ferma nessuno.
La moglie forse gli aveva dato dell’ubriacone, uomo senza
famiglia e forse lui le aveva mollato una sberla, le aveva detto parole
che si imparano quando si resta soli, o invece
erano anni che si parlavano solo
per questione di soldi, di figli, di come fare
a mandarli a scuola che non ci volevano andare,
tanto a cosa serviva. Comunque io questo non lo so,
so solo che l’uomo ha preso
le chiavi della casa che per un poco
sarebbe stata la sua.
E’ andato via di corsa.



Se di M.G. Calandrone ne avevo sentito parlare di iole Toini non so nulla. Grazie ancora a Daniela per avermi fatto conoscere anche lei.

Il ritratto è perfetto. Nel senso che va su e giù nell’animo di quest’uomo e lo rende riconoscibile. Persino quel sedersi sull'orlo della sedia è un tratto perfetto.
E’ lo stesso meccanico che mi ripara le gomme, stesso nero nelle unghie, stessa identica parola dura alla moglie che alla fine se n’è andata.
L’agenzia immobiliare è solo un pretesto, di quelli che i poeti cercano per scomparirci dentro e non aver timore di osservare e immaginare la realtà che sta vivendo. Si perché qui nulla è definitivamente vero, nemmeno la storia della sberla e dell’osteria e dell’ubriacarsi , ridere e piangere, ma tutto è straordinariamente possibile e tutto si regge sul dramma di fondo, di cercare una casa perchè l'altra è persa, insieme alla famiglia. Quanta è vera questa cosa e quanto ci sarebbe da piangerne.
La storia, quella vera e quella immaginata, calza a pennello sul personaggio, su come la casa sia cardine della propria esistenza, centro esatto della sua libertà. Averne una in cui riposare senza problemi legati alle relazioni con l’altro. Sì, perché c’è anche questa contraddizione, di desiderare le mura, i cuscini e dove posare gli scarponi sporchi,l’oggetto insomma senza nessuno dentro, rinunciando alle discussioni sull’ordine e la pulizia. Concetti che se finiscono per prevalere si intrecciano mortalmente a quelli sui soldi, i figli, la scuola dei figli e allora addio allo stare insieme, inizia la solitudine o meglio giunge alla sua evidenza precisa e dolorosa di vicolo senza uscita. Ed è questo sentimento che mi arriva di rassegnazione, una specie di elaborazione della perdita della casa nutrita di un'effimera quanto primitiva volontà:

Voleva una casa per sé, dei muri caldi e un divano
dove lasciare l’impronta del suo lavoro
senza preoccuparsi di imbrattare i cuscini.


La chiave giù in chiusa apre definitivamente la porta di questa non-casa dove tutto è lecito ma al prezzo di una condanna senza appello alla regressione e alla solitudine. Metafora che non lascia scampo e che alla sensibilità del poeta non sfugge perché sempre di solitudine umana si tratta. E il poeta qui non giudica, né invita a farlo ma solo ne segnala il dramma quasi fosse comparso da sè nel suo animo per farne poesia:

Comunque io questo non lo so,
so solo che l’uomo ha preso
le chiavi della casa che per un poco
sarebbe stata la sua.


Ciao franco
cripaf
00giovedì 17 dicembre 2015 09:44
Il vecchio

Le gambe secche dondolavano dalle sbarre,
i ferri gli segavano le cosce scheletrite.
Il vecchio premeva i polsi sulle coperte; remava la sua onda,
cercava l’equilibrio rimasto sotto le lenzuola dove poco prima
era disteso, gli occhi al soffitto.
Muoveva i piedi avanti e indietro, spostandosi piano lungo le aste.
Era uno scoiattolo che stava per saltare dall’albero.

Ho pensato ora cade.
Volevo andargli vicino.
Ero un niente che gli soffiava contro.
Chiamo l’infermiere, ha detto il ragazzo di fianco al suo letto.
Lui ha cominciato a balbettare qualcosa.
Forse pensava a suo figlio, alle mucche, al formaggio
da cagliare, alla pipa lasciata sulla credenza.
Gli ho toccato il braccio.
Forse non mi ha sentito.
L’ho tenuto come si tiene la paura in fondo alla gola.
Era di vetro mentre si lanciava verso la terra.
Con una mano si è aggrappato al comodino,
con l’altra frugava l’aria come cercasse
sul fondo di un cassetto.
Il pannolone gli penzolava dalle cosce.
Le gambe molli, senza carne, uscivano dalla plastica come aringhe.
E’ entrato l’infermiere. Lo ha preso per un braccio.
Cosa-fa-in-piedi-Franca-vieni-a-aiutarmi-questo-è-sceso-dal-letto.]
Plof, lo hanno sollevato, disteso bello diritto, plof, richiuso dentro.
Quando-viene-tuo-figlio-ti-porta-a-fare-un-giretto.
Franca gli ha tirato il lenzuolo fino sotto al mento.
Lui stava zitto, guardava il punto che c’era dopo il soffitto.
La settimana seguente il letto era vuoto.
Forse era tornato a casa.

La poesia di Iole è in poche scene brevissime, quanto basta per entrarci dentro lei e noi. Si, perché si ha questa precisa sensazione: di stare lì e vedere questo signore di vetro dapprima agitarsi nel letto a cercare l’equilibrio e quindi gettarsi verso terra come uno scoiattolo. C’è l’impeto del piccolo animale ferito mortalmente che intravede il punto oltre il soffitto come la sua casa, la ribellione contro chi (l’età, la malattia)lo costringe suo malgrado a letto come in un sepolcro. Sepolto sotto le lenzuola c’è un individuo vivo, non quella cosa che l’ infermiere chiama “questo” e che Franca richiude così efficacemente.
Persona fino in fondo, anche con il pannolone che gli penzola dalle cosce e le gambe diventate due aringhe secche. E’ questo credo che l’autrice abbia avvertito: d’essere un niente contro questa forza sconosciuta(lo stesso niente che comunica a noi o almeno a me)e immensa che tiene testa all’ avversità e le si rivolta contro e che chiamiamo vita. Lo stesso iato di tempo tra quando il fatto accade e la volta che non c'è più è colmo di questo slancio inarrestabile e positivo.

grazie franco
cripaf
00giovedì 17 dicembre 2015 22:30
il vecchio

...Se poi la si vuole guardare da un’altra angolatura è qui la condizione estrema dell’allontanamento dalla casa. E allora si capisce molto bene il sentimento del poeta che immagina lo scoiattolo cadere dall’albero, costretto suo malgrado a rimanere imprigionato da forze avverse e l'agitazione del suo cuore in quel farsi onda. Il poeta è quasi annichilito da queste forze estreme: sentimenti della casa, vita. Gli sembra di poter far qualcosa ma quei sentimenti sono dello scoiattolo e non si lasciano penetrare facilmente se non sfiorare da un tocco di solidarietà, quanto basta per poterne misurare l’intensità e immaginare il dramma.
cripaf
00sabato 19 dicembre 2015 09:59
Festa latina

C’era cuba, il brasile, donne con le curve alte
uomini coi capelli bianchi, la voce che svuotava il sangue,
musica gialla come la senape, facce negre
che tagliavano le reni.

Ho comprato degli orecchini
azzurri come una finzione.
Ti stanno bene negli occhi, ha detto Simona.
Lei è rossa/una cerva/ bella oltre misura.
Gli uomini le salivano dal mento;
lei li lasciava entrare dalla bocca.

Ho indossato i miei orecchini.
Barbara mi ha schioccato un bacio. Un travestito
ha invitato Stefano a ballare. Ma lui aveva
paura di cedere alle sue mani aperte.
Indossava calze a rete, la gonna
appena sotto le natiche. Era bellissimo; più
vero di me, di Simona, più vero di Stefano,
dei nostri sogni che balbettavano
fra le gambe della lambada.
Coi capelli toccava il filo
delle luci. Prendi me, gli volevo dire
mentre il mio odore di fieno
mi inchiodava ancora e ancora al muro.

*


Anche questa è molto bella. Qui è la bellezza stessa a far da padrona. La muove una danza latina che si lascia sentire potentemente e trasporta i protagonisti. Non c’entra il sesso, il travestito non è che un’occasione per dimostrarne la potenza ed il fascino irresistibile. Anche qui ritrovo un senso di annichilimento del poeta di fronte a una forza irresistibile della natura.

Baudelaire avrebbe detto:
Maschera o messa in scena, salve! Bellezza io t’adoro! (I fiori del male, XCVIII)

E lei:

Era bellissimo…\ mentre il mio odore di fieno…

E tutto è vissuto e riassunto in quel:

prendi me, gli volevo dire

che arriva al lettore insieme al resto della poesia.

ciao franco
cripaf
00domenica 20 dicembre 2015 09:22
Dio ranuncolo

Dio ranuncolo fammi crescere dall’ala
della montagna dove la vanga non può conficcarsi
e l’aria esiste per i prati che ridono
e tutto è smisurato
di bellezza anche la terra pregna di fango
che sgrava la vacca, che fa morire il vitello

fammi essere quel vitello
che marcisce
per concimare le radici del tuo esempio giallo



Altro bellissimo brano che assume la forma di preghiera. Dio è in una pianta che vive e si moltiplica in milioni di esemplari gialli a cui tutto sembra asservito. Il suo aspetto è nella bellezza smisurata dei prati che ridono e nella solidità della montagna che non si lascia scalfire. L’aria,la terra, il vitello che marcisce servono a nutrire questa bellezza ed al poeta non resta che chiedere di farne parte.
Ancora il tema della bellezza, dunque. Qui a denotare la Natura ed il dio che ci vive dentro.
ciao franco
fabella
00mercoledì 23 dicembre 2015 08:50
non avevo dubbi, Franco, che avresti apprezzato la poesia di Iole [SM=g8265]

qualora lo desiderassi, in questo caso sarebbe possibile renderla partecipe dei tuoi interessantissimi commenti. ecco il link del suo blog

https://ioletoini.wordpress.com/

buone feste a te, carissimo Franco [SM=g2843107]
cripaf
00mercoledì 23 dicembre 2015 08:51
Piazza Duomo

Piazza Duomo e il podere della mia pancia
che continua a credere ai tordi, alle lumache,
agli svincoli della pelle con una chiarezza
che mi intimorisce. Senza dubbio
ho avuto qualche trauma infantile.
Ne sono certa quando guardo ragazze
che attraversano il parco
sotto gli occhi famelici dei castani:
nel bel mezzo della falcata del sole
questi tipi gorgogliano la loro più vera
somiglianza con l’uomo calvo.

Ma la piazza non se ne cura, i ciottoli
continuano a farsi calpestare da persone ignote ai più,
i bar si sporgono, fanno l’occhiolino interessati;
tutto noiosamente comune all’ordine tanto caro ai piedi.

Ma torno alle mie certezze, tipo che da qualche parte rinascerò prato.

Intorno intanto altri alberi viaggiano spregiudicati
dichiarando la mia distanza dalla loro altitudine
direttamente proporzionale alla certezza di esistere.




Nel leggere questa poesia mi sono imbattuto e perché no, arenato sull’identità di quell’uomo calvo. Ho cercato di collegarlo alla piazza ma poi mi sono orientato a considerare l’immaginario infantile della poetessa. Chissà come sarà stato quest’immaginario e che ruolo avrà rivestito nei suoi sogni questa figura. Se fosse così, ho il dovere di rassicurarla almeno in questo punto che non sempre gli uomini calvi rappresentano una minaccia e stanno agli occhi famelici dei castani come i padri ai figli, il più delle volte se ne discostano e potrebbe addirittura capitare che qualcuno ami l’universo poetico e se ne cibi. Detto questo arrivo al testo, alla piazza incurante dei traumi infantili, coi suoi ciottoli indifferenti e annoiati protagonisti del viavai cittadino, ai bar che strizzano l’occhio ai passanti e di contrasto a questo strana pancia che crede nei tordi, nelle lumache in maniera chiara, evidente da farne un podere di terra invisibile ma pur sempre vero.
Ecco, che certezza è mai questa di rinascere prato? Del tipo che la superbia\spregiudicatezza delle cime degli alberi -in "altri alberi" si legge(almeno io lo sento) che sta parlando di alberi di altro tipo, uomini per esempio-implica l’esistenza dell’umile prato. la certezza d'esistere non si fonda sul pensiero stesso che s'interroga freddamente e indaga come per Cartesio ed i razionalisti, ma nel sentire lo stare in vista, -il giganteggiare nell'apparenza-, lontanissimo dal sè, dal piccolissimo podere vivo che crede nei tordi e le lumache. L'accostare podere a potere nella mia mente ha un fascino incredibile. Continuamente confondo l'uno con l'altro, come se l'una volesse suggerire anche l'altra e farmi pensare alla forza della vita nelle sue infinite manifestazioni inspiegabili sul piano razionale come l'esistenza dei singoli esemplari, di tordo, di lumaca, di uomo\donna per cui credere è più appropriato di spiegare.
E' dunque un pensiero fondante che qui si incontra, di un' uscita umile all' esistenza come quella di un prato di cui si sente tutta la vita in pancia e di cui si è partecipi.
Ah il prato! Quanti ne attraverso in città, tutti gli universi noti a me e alla stirpe dei gatti. Non sono gli stessi ma un poeta che è certo di rinascere prato, non può che essermi vicino, tanto.

ciao franco
cripaf
00mercoledì 23 dicembre 2015 08:57
Re:
fabella, 23/12/2015 08:50:

non avevo dubbi, Franco, che avresti apprezzato la poesia di Iole [SM=g8265]



qualora lo desiderassi, in questo caso sarebbe possibile renderla partecipe dei tuoi interessantissimi commenti. ecco il link del suo blog

https://ioletoini.wordpress.com/

buone feste a te, carissimo Franco [SM=g2843107]





grazie Daniela, ricambio di cuore gli auguri.
si, anche iole Toini è una grande autrice.
grazie del link
ciao franco
fabella
00mercoledì 23 dicembre 2015 17:12
Re: Re:
cripaf, 23/12/2015 08:57:





grazie Daniela, ricambio di cuore gli auguri.
si, anche iole Toini è una grande autrice.
grazie del link
ciao franco




ecco una pagina di un libro di Iole, per te. la foto è di Anila Resuli (ti farò conoscere anche lei, prima o poi)


Iole Toini – Dei colori dei luoghi



cripaf
00giovedì 24 dicembre 2015 09:35
Re: Re: Re:
fabella, 23/12/2015 17:12:




ecco una pagina di un libro di Iole, per te. la foto è di Anila Resuli (ti farò conoscere anche lei, prima o poi)


Iole Toini – Dei colori dei luoghi







grazie ancora Daniela
da quello che leggo e vedo è davvero un bel regalo. Iole Toini come M.Grazia Calandrone sono state una bella scoperta per me come anche la tua splendida ospitalità e presenza.


tantissimi auguri
ciao franco



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