Corrono cosi le gazzelle?
Carissimi amici del forum,
Ho letto con piacere l’intervento del caro ugo.p su Livio Berruti e con maggior piacere ancora ho rivisto il filmato della sua vittoriosa finale delle olimpiadi di Roma. Così, solo così, ho sempre immaginato la corsa della gazzella: lieve e carezzevole, naturale e sciolta. Elegante.
La forza di Berruti stava nella superiorità della sua curva. I duecentisti possenti rischiano di essere risucchiati troppo verso l’esterno e spesso dissipano immense energie nel resistere alla forza centrifuga. A volte, per controbilanciare tale spinta, commettono l’errore di piegarsi troppo verso l’interno, compromettendo l’equilibrio.
La curva di Berruti era, davvero, da manuale. Trovava apparentemente d’istinto (ma in realtà grazie ad ore di meticolosa e quasi certosina preparazione, da buon Lumbard) la posizione giusta e la giusta misura della progressione, né esplosiva né fiacca, ed era raro che il rettilineo lo vedesse nelle posizioni di rincalzo. I negri americani che affrontò a Roma, che correvano realmente d’istinto, furono scioccati da quell’esile colomba bianca che sembrava inventare traiettorie impensabili.
Ma più difficile della curva è l’uscita dalla curva stessa, quando il velocista deve aggiustare l’assetto e passare da una posizione di spinta controllata ad una di sprint puro. Qui, credo, la superiorità di Berruti, almeno per qualche stagione, era ancora più marcata. La naturalezza della sua progressione gli permetteva di superare il momento dello “strappo” senza apparenti danni, senza quello sbandamento che tanto ha penalizzato velocisti più possenti, che spingono troppo in curva e poi perdono preziosi instanti all’uscita. La corsa di Berruti era un unicum. Guardate la sua esecuzione nel rettilineo, dall’uscita dalla curva fino al traguardo: non c’è variazione di spinta, posizione, movimento. L’assetto ideale magistralmente trovato rimane costante. Sembra di guardare sempre lo stesso istante, ripetuto all’infinito.
Un mio amico, che in gioventù era un buon velocista (10”7 e 22”0 all’inizio degli anni sessanta) e da militare correva nella squadra delle Fiamme Gialle, ebbe diverse occasioni di correre gare d’allenamento con Berruti. Era uno spettacolo di compostezza. Il torace rimaneva sempre eretto ma non rigido. Le gote non si gonfiavano in penose espirazioni. Gli occhi non rotavano allucinati sotto lo sforzo. La testa non ciondolava né si gettava all’indietro. Le braccia roteavano leggere, senza sforzi artificiosi per tenerle parallele, assecondando, più che stimolando, la spinta delle leve inferiori. Persino il tuffo sulla linea finale, guardatelo ancora, è appena accennato, quasi un inchino signorile e riservato. Non c’è sforzo apparente in nessun movimento.
Ma la cosa che più mi piaceva di Berruti era la sua naturale semplicità. Compì un’impresa memorabile, primo bianco europeo a vincere una gara di velocità dopo decenni di dominio da parte dei negri statunitensi, come se avesse vinto una lotteria di quartiere, con il suo sacchetto di fagioli. Era un dilettante vero, non conosceva la dimensione inflazionata dei divi dello sport. “Ho avuto paura”, disse, quando la polizia dovette proteggerlo dalla folla. La sua natura riservata e forse timida non era preparata alle estasi di massa ed alla glorificazione. Fu questo che lo distrusse. L’improvvisa notorietà ne sfracellò l’equilibrio interno, lo riempì di dubbi e paure. Era uno studente libero e contento, si ritrovò al centro di aspettative e responsabilità troppo grandi per lui. Si perse per strada, non ritrovò mai più quella serenità interiore e spensierata goliardia di quel pomeriggio indimenticabile, all’olimpico, quando eguagliò per due volte, nel giro di poco meno di due ore, il primato mondiale. Mentre il mondo dell’atletica si avviava sempre più velocemente verso un professionismo dapprima mascherato, Berruti rimase schiacciato dall’improvvisa comprensione della dimensione della bestia da circo braccata dalla stampa. Gli atleti di oggi vi nascono e vi sono preparati. Alcuni, del resto, non aspirano ad altro. Lui non vi era preparato e, credo, non vi aspirava nemmeno. Trovò ancora la forza di giungere quinto nella finale delle olimpiadi di Tokio, quattro anni dopo, con un dignitoso 20”7. Ma era un 20”7 deprezzato dal poderoso sviluppo delle discipline atletiche negli anni sessanta (il record mondiale era già a 20”2, nel 1968 scese a 19”8).
Berruti era un piacere a veder correre. La sua signorile scioltezza rendeva una disciplina dominata dalla forza bruta più simile alla danza. Anni dopo, il russo Valery Borzov, ingiustamente tacciato di essere un “prodotto di laboratorio”, mostrò le stesse qualità: una naturale ed istintiva eleganza nella corsa che viene esaltata, anziché mortificata, dalla meticolosa preparazione.
È bello veder gli umani correre come gazzelle. Non è il nostro destino, né a questo siamo portati, come non siamo portati al volo naturale. Ma vedendo correre persone come Berruti, Borzov ed i grandi negri americani come Owen e Smith (quello del 1968) uno è portato a sognare davvero la savana. La brevissima stagione di Livio Berruti ci dice che anche un bianco, a volte, può trovare quel livello di naturalezza. A volte.