Mario Benedetti r.i.p.

fil0diseta
00sabato 28 marzo 2020 07:50


da Umana gloria (2004)

In fondo al tempo

Stamattina il cielo batte la mano del temporale,
l’uomo delle cambiali è venuto a farci stare qui solo per
[guardare
chi può venire sulla porta a fare un grande rumore.
Le nuvole mangiano l’infinito,
mandano al gabinetto tutto lo sguardo. Annina,
è nel rivo di fango il bastone diritto che ricorda la tua casa.
Ha una volta il tetto di lamiera
con i muri grossi, e una volta solo i fiori con Silvio che
[parla.
Nella strada le ombre vanno sotto l’asfalto,
si cercano i bambini nei tubi di cemento della fognatura
[nuova.
Dietro gli scuri grida la lingua dei genitori. Dietro gli scuri
la carne delle bambine ha avuto un cortile pieno di rondini,
le teneva la terra, non so come dire, la sabbia e l’erba.
Il terremoto improvviso
come il morto che viene alla spalla per farci sentire
improvvisa la luna, la luna, la luna.

*

Passi lontani, bambini crespi nell’aria forte,
il piccolo gelo delle mani tenute vicine a prendersi.
[Oh inverno.
Nel freddo, il sigaro di Vanni, l’erba bianca e dura, giocare.
Abbiamo imparato nelle nostre case il modo di mangiare.
I tetti, quei tetti mi dicevano che io ero i miei occhi e non
[altri.
Nel freddo, adesso, ho un po’ di febbre e qui da solo…
Una volta sono venute le luci prima di dormire e c’era
[la nonna.
C’era la legna da preparare per il carbone e Ernesta
doveva scendere alla locanda a comprare il toscano.
La jarbe jenfri i claps sul ôr de strade.
L’erba tra i sassi sull’orlo della strada.
La piccola staccionata.
Noi non possiamo scendere più così.

Servirebbe guardare da lontano, pensare che si guarda.

Pieno un pomeriggio di dormiveglia voglio stare.
Stare con le nuvole ferme come una cosa bianca delle
[montagne.

In una finestra si ricorda il vento tra le foglie.

«Mi dici che non vieni e così penso
se anche verrai non ti dirò niente
ma se non parlerò tu capirai
che non ti voglio.»

Era una che diventava una. Oh inverno.

*

Log, Ambleteuse

Un bianco dove non si mette niente,
di notte
si vede una pagina di Nerval,
il sangue di Esenin, una baita, la strada nuda di una
[frontiera,
un bungalow sulla costa.

Non è mai tornare se diventa che mi vedi leggero.
La mano attraverso le case è dirti «guarda»
e già ti sporgi sul mare.
E la primavera gira gli occhi nella primavera
se ti dico «guarda quante eriche».

Difendimi, difendi questa notte bianca,
il giorno ripetuto nel pensiero.
Log, Ambleteuse,
colpi dei piedi sulla strada, facce piene di vento scuro,
i nostri visi nelle mani,
il vento negli occhi chiusi per pensarlo.

E un albero di fiori
sale sullo slargo con la marea
perché la mano è così, amore,
lei va alta fra i tuoi capelli.

*

Che cos’è la solitudine.

Ho portato con me delle vecchie cose per guardare
[gli alberi:
un inverno, le poche foglie sui rami, una panchina vuota.
Ho freddo, ma come se non fossi io.

Ho portato un libro, mi dico di essermi pensato in un libro
come un uomo con un libro, ingenuamente.
Pareva un giorno lontano oggi, pensoso.
Mi pareva che tutti avessero visto il parco nei quadri,
il Natale nei racconti,
le stampe su questo parco come un suo spessore.

Che cos’è la solitudine.

La donna ha disteso la coperta sul pavimento per non
[sporcare,
si è distesa prendendo le forbici per colpirsi nel petto,
un martello perché non ne aveva la forza, un’oscenità
[grande.

L’ho letto in un foglio di giornale.
Scusatemi tutti.

*

A D.

Penso a come dire questa fragilità che è guardarti,
stare insieme a cose come bottoni o spille,
come le tue dita, i tuoi capelli lunghi marrone.
Ma d’aria siamo quasi, in tutte le stanze
dove ci fermiamo davanti a noi un momento
con la paura che ci ha assottigliati in un sorriso,
dopo la paura in ogni mano, o braccio, passo,
che ogni mano, o braccio, passo, non ci siano.

*

Le mani sulla mela, sole con il verde
le dita avvoltolate nelle bucce.

Le cassette donate che Rina portava dal lavoro,
quelle cadute sul prato, mamma, che cosa mangi?

E il succo nella bocca della tua eternità
dove il mondo è stato unico e minuscolo.

Povera umana gloria
quali parole abbiamo ancora per noi?

***

da Pitture nere su carta (2008)

Colori 11

E ora è stupore, il bambino.
Guarda negli occhi i suoi occhi.

Si aggrappa alla terra, col bianco dei fiori.
Libro della via Pál, melograni davanti,

tra noi che non eravamo.

Nato da visi, da corpi, da tenera coppia.
Dentro, inseparati, oh, ma gli altri uguali insieme.

Spaccati, già morti, a uno a uno, a due.
E l’idea di vita pervade, trionfa.

Mondo non mondo, mio mondo nero.

*

Si sono addormentati
gli alberi, come fossero
alberi.
Rubor sin nombre. Astro perpetuo.

Entra in noi la luna, in me e in te.
Confín de plata, confine di argento.
Né carne né sogno. Ecuador entre el jazmin
y el nardo.

Tra i fiori di gelsomino, i fiori di nardo,
la rosa.
Inmóvil por el cielo…
È il colore della luna.

*

Galleggiano sull’asfalto
quelli che devono morire.
Solo sguardo a metà via
questo mio senza mente ormai.
Che affare è il loro?
Una musica è fortissima
per ogni passo, e ho dolore sordo
dallo sguardo non so dove.

Figure amate.

*

……………………………………physical dimensions

Erano le fiabe, l’esterno.
Bisbigli, fasce, dissolvenze.

L’esterno dell’esterno
qualcosa ascolta.

Qui.
Oh.

***

da Tersa morte (2013)

Quante parole non ci sono più.
Il preciso mangiare non è la minestra.
Il mare non è l’acqua dello stare qui.
Un aiuto chiederlo è troppo.
Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie
[le parole.
E non ci sono salti, mani che insieme si tengano
alla corda, sorrisi, carezze, baci. Una landa impronunciabile
è il letto nella casa di riposo dei morenti,
agitata, negli spasmi del sentire di vivere ancora.
In provincia di Udine, Codroipo, il malato ai due polmoni,
i pantaloni larghi, il viso con la pelle attaccata alle ossa,
il naso a punta non sono la storia da raccontare, né i ricordi.
Arido sapere, arido sentire.
E io dico, accorgetevi, non abbiate solo vent’anni,
e una vita così come sempre da farmi solo del male.

*

Il sosia guarda, la vita ha deciso.
Vede gli ultimi giorni, si vergogna di scriverlo.
È avvolta nella coperta sui piedi,
il figlio senza lo stomaco mangia i pezzetti di trota
sulle scatole dello yogurt medicinale.
Giocato a carte nel bar del paese. Non visto il due.
Bevuto il caffè con la diarrea refrattaria.
È una storia per tutti questa morte.
Nella casa il sosia tocca le dita della madre
dicendole che il figlio è morto. Dopo la pleurite
un mese prima di compiere gli anni lei
ha detto: anch’io e la nostra casa non ci siamo più.

*

Mandami le ossa, mandami il cranio senza gli occhi,
la mascella aperta, spalancata, fissa nei denti,
e i calzini sotto la tuta, eri rigido, eri rigido, eri una cosa
come un’altra, senza la forma che hanno i tavoli,
morso dallo stento del vivere, una cosa inservibile,
indecisa, un terriccio che non si nota, un pezzo di asfalto
di una strada anonima, eri tu, quella cosa, eri tu,
quella cosa, eri uno che è morto. Così fragile il tuo sorriso,
lo sguardo blu e gli zigomi, il metro e settantacinque
portato come un uomo che piace, che vive per sempre,
per sempre dentro una vita che per potere essere
vissuta deve sembrare una vita per sempre, mentre eri
della carne, quello che io sono uno per sempre ancora.
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