commento a 4mani
Si rappresenta in modo intenso la tragedia della guerra tra il Fado e la "ratio" che percepisce gli anacronismi e la necessità di chiudere con l’inesistente, con il sistema di cuori non più appartenenti al presente.
Apprezzabile per i richiami architettonici, letterari e filosofici intessuti grazie agli anacronismi stessi, che volutamente pescano qua e là, dove la storia regala metafore all’agonia. Nel contempo cercano le origini di un fado che esce dallo stereotipo della sua provenienza, della quale conserva solo il nome, e si esprime in ogni luogo e civiltà, in ogni dove ci sia un cuore che soffre della lontananza e della separazione.
Il Fado come uno strumento musicale da modulare, un suono che s’insinua nelle caverne come l’acqua che nessuno sa fermare. Passa le porte chiuse, assurge a voce che parla dal profondo.
Il Fado che cestina, le longitudini e taglia le vie del sale, mete irraggiungibili.
Il Fado che ritorna a cancellare i limiti al reale.
Il Fado che sfiora tregue, nei calcoli di cerchi e corridoi.
La possibilità razionale delle geometrie tangibili, meno astratte, approda all’incerto e all’ignoto dei labirinti ebraici. Sempre circolari, essi, formati da sette cerchi concentrici, sei corridoi, la città al centro. L'ingresso sempre in basso.
Il labirinto ebraico è il labirinto kafkiano, il Castello dei destini incrociati.
È Kafka che ci svia nei suoi molteplici labirinti, a inseguire i fatti, i personaggi, le metafore, le allusioni. I simboli che lascia intuire anche quando è negata l'intenzione di dare un significato unitario. Nel suo modo di essere, tenero e sensibile, sempre infelice e carico di colpa, in "disperata attesa" di una salvezza che non verrà, ma che non smetterà mai di attendere.
Il Fado in danza lenta che cerca l’acqua attorno per attutire il suo grido.
Il movimento singolo o multiplo delle dita sul Rosario che assalta le falangi del male che turbano la pace, seminano castighi e rovine.
Il Fado percepisce la speranza che esista un cielo nuovo di ricamare di perline, ma brucia al rogo e sempre più, “s’arriccia tra le fibre” fino a vincere nella convinzione che dà al tuo soggetto di essere stato frainteso, condannato a morte come Giovanna d’Arco, da chi si proclama portatore di giustizia e verità.
E come si dice “ciò che non uccide rende più forti”, così anche “il martire” della poesia si rafforza e invece di perdersi nell’autocommiserazione, va verso l’incognito del dopo in un’arrogante scena di coraggio, quello di fare una scelta, la quale certamente escluderà tante cose, ma fornirà la chiave per capirne qualcuna di più essenziale.
simina&daniela