Buongiorno a tutti, questo è un vecchio testo, lo lascio nelle vostre mani, per chi avesse voglia di scondirlo, limarlo, frantumarlo...
-2006-
lungo un sentiero mai assolato, contorta fuga d'argilla
screziata di marmo e fango, erta d'aridi arbusti
ispide macule del rigoglio di un rovo
si rabattava Ubertuso, tondo infame e indotto
su una lancia di strada battuta
angusta, all'orizzonte ferma, corona di luce e faville
si rabattò.
Divorava rotolando adiposo
al rimbalzo tra l'impaccio e l'affanno
morsi soffocati da lesto agonismo
dove l'oro é adito di giardini celesti.
Degradò sul terreno sterile a cogliere un grano
lo assimilò tra i denti, ne ruminò il sapore
ingurgitò.
Calò con un arto e di mano su un tozzo di pane
trafugato dalle languide appetenze di una creatura
abbattuta da rachitiche espressioni nelle condense
più afose delle folte selve.
Ne assaporò.
Marciò ingordo tra una punte e l'incappo, sulle prede scorte
si rifocillò.
E ancora vibrò sulla lingua distorta
di mele e lamponi, tranci di carne della sacralità di un bovino
un petto piumato di struzzo, spezie di un polposo cosciotto
ornato di verde e di sfarzo, tra gengive usurate
ingurgitò.
Sorsi di latte rappreso dai seni di giovani madri, graffi
e confetti di mandorle amare, estorte
alle spirate copule.
Spruzzi, canditi e scorze di limone, vitelli straziati
si rigonfiò.
Tre fichi, porpore dense di fregole mai accolte
ritratti mai spesi né doni.
Dal peso e il sorvolo di una mongolfiera strampalata dai venti
barcollò
fracasso d'epa di una botte vuota all'unisono.
Si soffermò.
gelido alla meta, preziosa aura
trascinio di masse corpose, l'ingombro
un boccone, lo spasmo.
Empio e sicuro di esser degno
a un varco d’Etere in cascata libera
di balze pasciute in tondo.
E impallidì gravido all'atrio del firmamento
emesse in stille la sciagura di una massa sospesa
poltiglia d'avide trite.
Lo accolse la carestia ingrata, donna dall'anima bianca e la pelle corvina
Ubertuso, cosparso di stelle e del nulla, roso d’altra fame
morse da se.