Ubertuso il gravido

ggiacinto
lunedì 8 settembre 2014 12:35
Buongiorno a tutti, questo è un vecchio testo, lo lascio nelle vostre mani, per chi avesse voglia di scondirlo, limarlo, frantumarlo...

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-2006-

lungo un sentiero mai assolato, contorta fuga d'argilla
screziata di marmo e fango, erta d'aridi arbusti
ispide macule del rigoglio di un rovo
si rabattava Ubertuso, tondo infame e indotto
su una lancia di strada battuta
angusta, all'orizzonte ferma, corona di luce e faville
si rabattò.
Divorava rotolando adiposo
al rimbalzo tra l'impaccio e l'affanno
morsi soffocati da lesto agonismo
dove l'oro é adito di giardini celesti.
Degradò sul terreno sterile a cogliere un grano
lo assimilò tra i denti, ne ruminò il sapore
ingurgitò.
Calò con un arto e di mano su un tozzo di pane
trafugato dalle languide appetenze di una creatura
abbattuta da rachitiche espressioni nelle condense
più afose delle folte selve.
Ne assaporò.
Marciò ingordo tra una punte e l'incappo, sulle prede scorte
si rifocillò.
E ancora vibrò sulla lingua distorta
di mele e lamponi, tranci di carne della sacralità di un bovino
un petto piumato di struzzo, spezie di un polposo cosciotto
ornato di verde e di sfarzo, tra gengive usurate
ingurgitò.
Sorsi di latte rappreso dai seni di giovani madri, graffi
e confetti di mandorle amare, estorte
alle spirate copule.
Spruzzi, canditi e scorze di limone, vitelli straziati
si rigonfiò.
Tre fichi, porpore dense di fregole mai accolte
ritratti mai spesi né doni.
Dal peso e il sorvolo di una mongolfiera strampalata dai venti
barcollò
fracasso d'epa di una botte vuota all'unisono.
Si soffermò.
gelido alla meta, preziosa aura
trascinio di masse corpose, l'ingombro
un boccone, lo spasmo.
Empio e sicuro di esser degno
a un varco d’Etere in cascata libera
di balze pasciute in tondo.
E impallidì gravido all'atrio del firmamento
emesse in stille la sciagura di una massa sospesa
poltiglia d'avide trite.
Lo accolse la carestia ingrata, donna dall'anima bianca e la pelle corvina
Ubertuso, cosparso di stelle e del nulla, roso d’altra fame
morse da se.

fabella
lunedì 15 settembre 2014 10:25
tu sai come io subisca il fascino di questa tua poesia datata. in questa addirittura riesco a giustificare la sovrabbondanza di aggettivi, che rappresentano una sottolineatura all'esagerazione che pregna tutto il contesto. ho provato a metterci le mani, a smussare un po', ma con cautela, per non alterare il tuo impianto e soprattutto le tue atmosfere. l'ultima parte poi è stata la più difficile da toccare



-2006-

lungo un sentiero mai assolato, contorta fuga d'argilla
screziata di marmo e fango, ispida di arbusti
e macule di un rigoglioso rovo
si rabattava Ubertuso, tondo infame e indotto
su una lancia di strada battuta
all'orizzonte ferma, corona di luce e faville
si rabattò.
Divorava rotolando
al rimbalzo tra l'adipe e l'impaccio
i morsi soffocati da un lesto agonismo
dove l'oro é adito di giardini celesti.
Degradò sul terreno sterile a cogliere un grano
lo assimilò tra i denti, ne ruminò il sapore
ingurgitò.
Calò con un arto e di mano su un tozzo di pane
trafugato dalle appetenze di una creatura
abbattuta nelle condense più afose delle selve.
Ne assaporò.
Marciò ingordo tra una punte e l'incappo, sulle prede scorte
si rifocillò.
E ancora vibrò sulla lingua legata
di mele e lamponi, tranci della sacralità di un bovino
un petto di struzzo, le spezie di cosciotto
ornato di verde e di grasso, tra le gengive
ingurgitò.
Sorsi rappresi dai seni di giovani madri, graffi
e confetti di mandorle amare.
Spruzzi, canditi e scorze di limone, vitelli straziati
si rigonfiò.
Tre fichi, come porpore di fregole mai accolte
ritratti mai spesi, né doni.
Dal peso divenne un sorvolo di mongolfiera strampalata dai venti
barcollò
fracasso d'epa di una botte vuota all'unisono.
Si soffermò.
gelido alla meta, preziosa aura
trascinio di masse corpose, l'ingombro
un boccone, lo spasmo.
Empio e sicuro di esser degno
a un varco d’Etere in cascata rotonda
di balze pasciute.
E impallidì gravido all'atrio del firmamento
emesse la sciagura di una massa sospesa
poltiglia d'avide trite.
Lo accolse la carestia ingrata, donna dall'anima bianca e la pelle corvina
Ubertuso, cosparso di stelle e del nulla, roso d’altra fame
si morse da sé.


ggiacinto
lunedì 15 settembre 2014 14:24
Certo Fabella, è chiaro che si tratta di un testo unto, e sovraccarico, ma sei riuscita a limare il superfluo ingiustificato.

Grazie!

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