Vittorio Bodini

fabella
00mercoledì 16 luglio 2014 20:26
Alcuni testi dell'autore:


Da Foglie di tabacco (1945-47)

1.
Tu non conosci il Sud, le case di calce
da cui uscivamo al sole come numeri
dalla faccia d'un dado.

4.
Quando tornai al mio paese nel Sud,
dove ogni cosa, ogni attimo del passato
somiglia a quei terribili polsi dei morti
che ogni volta rispuntano dalle zolle
e stancano le pale eternamente implacati,
compresi allora perché ti dovevo perdere:
qui s'era fatto il mio volto, lontano da te,
e il tuo, in altri paesi a cui non posso pensare.

Quando tornai al mio paese nel Sud
Io mi sentivo morire.

8.
Una funesta mano con languore dai tetti
visita i forni spenti, le stalle in cui si desta
una lanterna o voce impolverata.
Come da un astro prossimo a morire
S'ode un canto dai campi di tabacco.
Sulle soglie, in ascolto, le antiche donne sedute
- o macchie che la luna ripercuote nell'aria &endash;
socchiudono pupille d'una astratta durezza
dai palmi delle mani, aperte pietre sui grembi.


9.
Cuatro caminos

Che nevoso silenzio,
che sogno miserabile
di carbone e di fango nei sobborghi!
Fra spettinate case qualche fanale a gas
getta nell'ombra la sua ombra verdastra:
lì una coppia dilegua, e nel punto ove sparve,
la coda d'una serpe fra le canne
d'una remota estate un attimo balena.

Una pietà insensata
arida come semi di girasole
gira in folle ai crocicchi,
mentre nella tua terra i contadini
invisibili parlano turchino
dai campi di tabacco, e fra un istante
la notte avrà sapore di oliva verde.

11.
Viviamo in un incantesimo,
tra palazzi di tufo,
in una grande pianura.
Sulle rive del nulla
mostriamo le caverne di noi stessi
- qualche palmizio, un santo
lordo di sangue nei tramonti, un libro
lento, di pochi fatti che rileggiamo
più volte, nell'attesa che ci dia
tutte assieme la vita
le cose che crediamo di meritare.


12.
Un monaco rissoso vola tra gli alberi.


Da Altri versi (1945-47)

Tanti anni

Noi abitiamo in una rosa rossa.
Passavanbo treni in corsa alla periferia
- un gomito sonoro -
e tutto il resto era un fermento di cieli.
Un meriggio d'inverno, col sole su un muro bianco,
riconoscemmo la nostra amata calligrafia.
Chi avrebbe mai pensato
che voi scriviate come un'ombra d'alberi,
come i pettini freddi
con i denti coperti di capelli!

(S'era in pena per voi.)
Così passammo la notte.


Da La luna dei Borboni

1.
La luna dei Borboni
col suo viso sfregiato tornerà
sulle case di tufo, sui balconi.
Sbigottiranno il gufo delle Scalze
e i gerani &endash; la pianta dei cornuti -, *)
e noi, quieti fantasmi, discorreremo
dell'unità d'Italia.

Un cavallo sorcigno
Camminerà a ritroso sulla pianura.

*) il geranio non è riuscito a salvarsi. Ma perché pianta dei cornuti? Penso per associazione d'idee con le donne che passano molte ore affacciate ai balconi o alle finestre dove i gerani sono immancabili (n. d. A.)

4.
Un campanile di sughero
verso i capelli corti della luna
ghiotta d'angurie. Un grande carro fermo
ai passaggi a livello,
fra gli orti coi piselli calpestati
di nottetempo. Dorme
il carrettiere o non dorme,
bocconi
con il capo fra le braccia,
e il fanciullo covava
il desiderio inquieto dei pidocchi
al passaggio del treno verso il Nord.


6.
I preti di paese
hanno le scarpe sporche
un dente verde e vivono
con la nipote.
Presso cassette vuote
d'elemosina
sanguina Cristo in piaghe
rosso borbonico;
esala un'agonia
dura dai banchi
e dai fiori di campo.
In piazza, accoccolati
sulle ginocchia del Municipio,
stanno i disoccupati
a prendere l'oro del sole.

Trotta magro e sicuro
un gatto nel Sud nero.


8.
Qui non vorrei vivere dove vivere
mi tocca, mio paese,
così sgradito da doverti amare;
lento piano dove la luce pare
di carne cruda
e il nespolo va e viene fra noi e l'inverno.

Pigro
come una mezzaluna nel sole di maggio,
la tazza di caffè, le parole perdute,
vivo ormai nelle cose che i miei occhi guardano:
divento ulivo e ruota d'un lento carro,
siepe di fichi d'India, terra amara
dove cresce il tabacco.
Ma tu, mortale e torbida, così mia,
così sola,
dici che non è vero, che non è tutto.
Triste invidia di vivere,
in tutta questa pianura
non c'è un ramo su cui tu voglia posarti.


11.
E infine aranci imbandierati e carichi,
spine e raffiche
di dolcezza nei fichi d'India, uomini
traballanti sui carri
vuoti
per caricare il tufo dalle cave,
col cane morto di sonno.

E stagioni dal becco sottile
di cicogna, che si spulciano il petto,
che prendono pietre da terra
e le buttano più in là.


Da Dopo la luna (1952-55)


L'allodola e la luna

L'allodola e la luna sole nel cielo:
lei sorta appena e il passero spaurito
dal pino nero e i silenziosi spari
dei finti cacciatori in mezzo al grano nascente.
Nessuno l'attendeva. Nessuno attende.
Volava di traverso con tutto il cielo in gola.
Sotto di lei crollavano i papaveri,
un'ombra cancellava coi grossi pollici
il dolce vino e il viola del tramonto.

In una stanza in fondo, la memoria,
lasciata ai suoi più torbidi solitari,
di te non s'informava, fine d'un grande giorno:
giorno da meditare
davanti a una finestra, col silenzio alle spalle.


Come un polpo sbattuto

Come un polpo sbattuto ancor vivo contro lo scoglio
si arricciavano i miei pensieri
a Bari fra le barche verdi e gli inviti
favolosi dei venditori
di quella iridescente pena; ma io
non avevo che una moneta
d'impazienza e di notte,
una moneta nera dei paesi
dell'interno, che soffoca le case
fra orizzonti di corda su cui oscilla
la tarantola &endash; un'altra pena -; e tu un'altra,
quando dicesti: la pietà è più forte
dell'amore. Più rapida è volata
che il mio odio la mano sulla tua guancia.
Sto davanti alla tua caverna

Sto davanti alla tua caverna.
Esci fuori e arrenditi.
Noi abbiamo la sintassi e la radio,
i giornali e il telegrafo
e tu non vivi che del mio sonno,
non hai che la roccia a cui ti tieni abbrancato,
e per farmi dispetto
non mi rispondi nemmeno.


Tutto ciò che ti dono

Tutto ciò che ti dono
non t'interessa.
Guardi le grandi siepi
gialle,
e il ponticello senz'acqua
o la grottesca ira del pungitopo,
e pensi a un cielo più alto,
non quello su cui corrono
pattinando i miei occhi,
o le gare fra case ed erba, e i gialli
e rossi dei suoi fiori.
Un contadino catafratto spruzza
d'azzurro le sue viti:
se ne tinge il vento
capelli e dita per gioco.
E non è bello? E dunque? Noi viviamo
assieme da tanti anni,
e non posso sapere
cos'è che ti rattrista,
che respingi ogni cosa:
se è l'orgoglio e i belletti del piacere
o se il dispetto di non essere eterno.


Voli basso sulla pianura

Voli basso sulla pianura
amore il cielo
poco ti solleva
come sei verde e nera
la bocca rossa
di rosolaccio.
Vola così e così
t'incurvi bianca
fra le vigne fugaci
e a me torni più viola
mia di colore e tutto
agave mia
che ha imparato a cantare
dal gorgoglio dei pali del telegrafo
un canto nero che va giù e s'interra.
Cresce l'erba
e la capra legata al fico.


Xanti-Yaca *)

Solo quando tu entrasti
la barca fu piena,
e il barcaiolo coi buchi nella maglietta
fece sparire la nazionale
che gli diedi perché remasse di spalla.
Così il mare quel giorno
poté maturare ricordi per dopo.

Al tempo dell'altra guerra contadini e contrabbandieri
si mettevano foglie di Xanti-Yaca
sotto le ascelle
per cadere ammalati.
Le febbri artificiali, la malaria presunta
Di cui tremavano e battevano i denti,
erano il loro giudizio
sui governi e la storia.

Così semplice,
che noi non lo avremmo fatto.

Uno l'ho visto io
camminare col capo in giù
sul soffitto,
altri bevevano a un pozzo
di scorpioni e di serpi,
non senza gridi,
nel viola acido e sporco
d'una cappella,
mentre fuori era il chiaro giorno
steso coi piedi avanti
come il Cristo del Mantegna.

Così mi disorienti
se ti guardo vivere:
io vedo tutte le insidie
e tu sei in grande pesce senza testa,
disordinato e prode,
che smuove più acqua del necessario,
ed è quando mi dici disperata
"Vorrei già avere trent'anni".


Col tramonto su una spalla

Col tramonto su una spalla
e fasce gialle e blu,
alto, come un gelato
di corvi in mano,
chino la testa e passo
sotto l'arco di Carlo V.
E al passaggio si spegne
il lumino dell'anime sante
che tengono la destra
a cinque punte sul petto,
fra le fiamme del Purgatorio.

Questa è la mia città,
le mura le avete viste:
sono grige, grige.
Di lassù cantavano
gli angeli dei Seicento,
tenendo lontana la peste
che infuriava sul Reame.
Ora c'è fichi d'India, un aquilone,
un ragazzo che tende
il suo elastico rosso
contro qualche lucertola
troppo spaurita e minima
per presentarsi a quel sogno
d'inaudite avventure
di cui s'inorgoglisca il cuore umano.


Da Serie stazzemese

2.
Ninetta, la poesia
(d'estate) è un pappagallo
dalle penne oro e verdi e la mania
di contraddire.
Così mentre tu sogni
d'arrivare in Versilia
in regola, coi pantaloni gialli,
io penso a un viaggio di sei anni fa.
Ballava la Olivetti
la bombola del gas
sopra il sedile posteriore, il trucco
troppo forte ti sbilanciava il viso &endash;
poi l'ulivo e un paese
dove moriva il giorno
come un gran gallo suicida
sulle terrazze.


4.
Son maturato tardi. È la smania
di vivere troppo presto che m'ha tradito.
Non dar tempo al tempo. Vedere
la bellezza soffrendo
di non poterla usare.
Ho imparato tardi ad accordare
al mormorio del ruscello i moti del cuore,
a ammettere la natura fra i miei pensieri
come un ospite da lasciare a suo agio.


Da Metamor

Conosco appena le mani

Conoasco appena le mani,
le scarpe che metto ai piedi.
Conosco il giorno e la notte
e i terrori del vento.
Ma gli anni? Dove son gli anni,
e tutti i libri che ho letto?
I volti amati si sfrondano
delle loro vicende,
non restano che i nomi.
Tutto nella memoria
cade a pezzi, sprofonda
senza rumore
nelle botole dei morti.
Ah, dove sono le acute presenze
del passato, le sue calde forme,
la cera su cui incidevano
i miei sentimenti?
Dove si nasconde il senso
delle cose che ho vissuto,
e i brividi lucenti
e i cieli dell'avventura?
(1962)


Nelle spire del boom

Presi nelle spire del boom ne gustiamo anche noi
gli alti palazzi e le piante nane
piume serpenti chiomati sotterfugi intimi.
L'astrattismo ci punse un dito come una rosa neoclassica.
Tacevano i cani di calce e la civetta veloce
e tutto ciò che un tempo avevamo dentro capovolto come in un negativo.
Solo una luce lontana e senza voce
accucciata davanti al mio mare in tempesta
come la vedova d'un marinaio
era il banco di prova dei tuoi velieri
di solitudine e d'ira,
solo una sera ignara che si versa
nella buca delle lettere.
(1963)


Daccapo?


Alle radici dei gesti
dove amare significa
imbeccare risposte a un passero giallo
chi ti cercò con l'anima
non ti trovò che con gli occhi.
La laguna interiore
insabbiata in accuse
proposizioni vertigini soavi sassi
aveva sogni circondati di vuoto
manifesti gialli
sui quali si leggeva comodamente
che tutto avrebbe potuto
ricominciare daccapo.
Gli occhi d'oro del sole
sequestravano nell'aria
un colore di ponti levatoi.
Persuadeva i tuoi seni di mercurio
l'incerta ubiquità
del pube a filo dell'acqua.
(1965)


Night II

Se bere un whisky è versarlo
sull'arso terriccio della propria tomba
dove l'oscenità canticchia assassinata
dall'ombra d'un cane o dalla furia della ragione
trofei d'occhi inespugnati
come fregi di antiche stamperie
si scioglieranno nell'alcol tra i sadici archivi
di una notte tradita da strambi propositi. *)
Una finestra morrà.
Morrà sul Bosforo un ferro di cavallo.
(1965)

*) tradita da strani propositi, proviene dal sonetto My Mostress' eyes are nothing like the Sun di Shakespeare, nella traduzione di Alberto Rossi (Einaudi, 1952, p, 307) &endash; (n. d. A.).


Tramonto a S. Valentino

L'uomo che s'affeziona al proprio deserto
guarda la proditoria brace
che scolora fra i platani
e sa che il suo pensiero un tempo amante di sfide
non sa andar oltre e quasi di quel limite
s'accontenta.
Lo sfiora appena il sospetto
d'essere prediletto
da quel rosso nulla.
(1964)

--

Da Inediti (1954-1961)

I pomodori secchi

I pomodori secchi
attaccati a uno spago
e le donne dai cuori di cicoria.
I pomodori secchi e i datteri gialli,
e le donne che colgono le olive
fra gli olivastri, con la bocca viola;
tutto è univoco e perso a furia d'esistere.

Dove hai nascosto, cielo, l'altra ipotesi?
Quale parte è la nostra?
Non saremo null'altro
che rozzi testimoni di questo esistere?


O mio dio a cui non credo

O mio dio a cui non credo,
ti leggo come una poesia profonda
piena d'occulti sensi e di fiumi paterni.

Sera

La lezione di musica
bruca l'umido
nel mezzo della via,
sentinella perduta dell'autunno,
e in una scia di zucchero filato
si fa strada l'urlo dei Sioux.
Nessun tempo avrà speso così male
tanta sete d'ignoto:
compra educatamente biglietti di morte
ai botteghini la gente, i giornali
parlano di dischi volanti
da cui ciascuno spera una rivincita.
(1959 ?)


Da Zeta


Antipoetica

Un tempo il verso d'avvio
cadeva direttamente dalle ginocchia di Giove
bastava riconoscerlo e seguitare
elaborare trascegliere il reale o se stessi
non già questo sporcarsi e intridersi
questa mano accusativa
che non salva e non placa
che lascia tutto come sta.
(19 giugno 1968)


La passeggiata del poeta

Il poeta passeggia fra i seni altrui
fra lune altrui
ed intanto si interroga sulla propria
statura d'uomo.
Girano delicatamente
piccoli e grandi emisferi
ma non sanno svelargli
quale delitto lo apparenti
al rosso dell'occaso o all'aurora del bosco.
(1969)




Vittorio Bodini

a cura di Gianmario Lucini



Questo poeta non pubblicò molto in vita: una novantina di poesie in tutto. Ci rimane di lui un fondo, molto ordinato, studiando il quale Oreste Macrì ha ricostruito filologicamente tutta l'opera del Bodini, curandone l'edizione definitiva, stampata dalla Mondadori nella collana "Oscar" nel 1983, pp.345. Dall'importante, ampio e curato saggio filologico introduttivo (circa 65 pp.) di Oreste Macrì (amico di giovinezza del poeta), ho attinto ampiamente per stendere questa nota. Il corpus delle poesie di Bodini è dunque relativamente modesto: circa 310 poesie. Ma, ovviamente, un grande poeta non è necessariamente un poeta che scrive molto: di Bodini mi pare di poter dire che l'accuratezza e l'originalità dello stile, la sapienza del mestiere e la profondità dei temi, ne fanno un personaggio degno di grande rilievo nella poesia italiana del '900, un autore che ha arricchito il '900 letterario italiano di contributi originali e dal quale non si può prescindere se si vuole avere una, pur modesta, visione globale della letteratura italiana di questo secolo; un maestro da quale c'è da imparare e che andrebbe rimeditato. L'edizione citata (ignoro se ne è uscito un aggiornamento) riporta in appendice una esauriente bibliografia sull'opera e sugli studi bodiniani (poco meno di 200 titoli di note, riferimenti, saggi critici di autori vari), sui convegni a lui dedicati e sulle traduzioni bodiniane da autori stranieri.
Nasce a Lecce nel 1914. Già da adolescente inizia la sua attività letteraria e in parte aderisce al futurismo (viene considerato il "capogruppo dei futuristi leccesi"), pubblicando 22 scritti su varie riviste leccesi, ma poi staccandosene con la sua prima importante raccolta di poesie del 1943. Con la sua terra ha un rapporto sofferto e ambiguo, come si evince dalle sue poesie: si considera di "famiglia e tradizione leccese", da una parte, ma nello stesso tempo accumula insofferenza verso l'abbandono del Sud, anche perché soggiorna spesso fuori dalla sua terra, (Roma, Firenze, Spagna) e pur portandone il ricordo e il segno, non si esime dal confrontarla con altre realtà.
Nel 1937 &endash; 1940 è a Firenze, dove si laurea in filosofia con una tesi sul Romagnosi. A Firenze il giovane Bodini entra in contatto con il tardo ermetismo di Luzi, Bigongiari e Parrocchi. Collabora a riviste come "Giubbe Rosse" e letteratura. Di quel periodo abbiamo sette poesie. Scrive Oreste Macrì: "Si badi che in quel tempo di "fiorentino" puro in libro era uscita solo la Barca di Luzi, quindi quello che fosse l'ermetismo di Bodini , ancorché non coagulato in libro, riuscì originale e alla pari. Solo Gatto impuro aveva raggiunto la prima maturità con le Poesie del '39". Scrive lo stesso Bodini: "La brevità della mia esperienza ermetica mi lasciava libero di cercare alla fine dello sfacelo nazionale un'altra via, un altro linguaggio poetico. Non son pentito però di quella esperienza (che oggi in mutate condizioni storiche riappare in un'altra forma nella mia poesia), ma durante e dopo la guerra incolpai l'ermetismo per averla straniata e disavvezzata dai grandi temi ed eventi collettivi avverso a quel calarsi nel fondo di sé".
Torna a Lecce e vi soggiorna fino al 1944. Un rientro amaro, malvoluto ("da allora in poi non potevo aspettarmi nulla di peggio" &endash; scrive Macrì: "odiava Lecce ma di un odio gelosissimo, filiale, esclusivo"). Nella "fossa dei leccesi", com'egli definisce il suo soggiorno, è troppo lontana quell'Europa letteraria con la quale egli cerca un collegamento di temi e di stili. Sin dal periodo fiorentino Bodini aveva aderito agli ideali di "Giustizia e Libertà", aderendo anche al "Partito D'Azione" e "Democrazia del Lavoro": nel periodo leccese questa scelta si consolidò in un ideale liberal-socialista al quale si attenne anche in seguito, caratterizzando la sua poesia con un impegno etico e sociale. Avverso (ovviamente) al regime fascista, fu spiato, perseguitato, vigilato speciale e anche condannato al carcere.
Si trasferì nel luglio del '44 a Roma. Finita la guerra, la politica italiana si rimise inmoto senza grandi cambiamenti nel profondo: lo Stato cambiava superficialmente volto ma l'essenza di molti problemi, segnatamente quello meridionale, non mutò di prospettiva. Da qui la sua "delusione senza rimpianto" di quegli anni. Di quel periodo abbiamo 40 poesie che testimoniano il contatto di Bodini con quello che Macrì chiama il "Barocco romano", una stagione dell'ermetismo che "risaliva in parte al chimerico liberty di D'Annunzio e si esprimeva anche nel mitico paesaggio urbano del Vigolo". Qui matura il progetto di un libro di poesie di cui alcune confluiranno nell'opera successiva in volume La luna dei Borboni, forse la più conosciuta delle due che il Bodini pubblicò in vita. Ma è evidente in queste liriche, come nella raccolta citata, l'influsso della poesia spagnola, soprattutto di Federico Garcia Lorca. Dall'autunno del 1946 a Pasqua 1949 infatti, l'artista si reca più volte in Spagna, con breve ritorno a Roma nell'estate del 1947, ed è in quella esperienza che matura la genesi de La luna (ricordo, per inciso, che la luna è un archetipo fondamentale della poesia di Garcia Lorca). Ricorda Macrì: "La generazione di Federico aveva scoperto e inventato il barocco di Gòngora e di Quevedo, consumato il sacrificio della Guerra Civile insieme con Antonio Machado, sofferto la diaspora e l'esilio dall'interno, castiglianizzato il surrealismo francese, inaugurato la poesia "impura" e umana nella nuova poesia di Aleixandre, Neruda, Alberti" Il Nostri autore "indulse al disimpegno, frequentò gli spettri e la varia fronda del Café Gijòn, ma ebbe contatti intimi, anche nei viaggi seguenti, con le organizzazioni antifranchiste… puntò alla Spagna reale ed eterna, minuta e invisibile", giocandosi la Spagna "esistenzialmente e "liricamente"". Ancora Macrì: "Rifece, insomma, lo stesso viaggio orfico interiore, attraverso simboli e oggetti esteriori fluidificati, dei poeti del '98 e del '25 alle radici di Castiglia (Unamuno, Machado) e Aldalusìa (Juan Ramòn, Lorca, Alberti) con la stessa rischiosa semplicità nelò rappresentare e significare gli aspetti più manierati e turistici della Spagna romantica, folclorica e pittoresca". Bodini inizia a scrivere un mese dopo il suo arrivo a Madrid: la Spagna è per lui una specie di lente con la quale osservare la sua terra, un ambiente umano che continuamente lo rimanda al suo Silento, come riferimento, come confronto.
Dal 1949 al 1960 Bodini è di nuovo a Lecce. Nel 1952 pubblica la sua prima grande opera, già citata e di cui l'esperienza spagnola è in qualche modo la genesi. "con questo blocco di terra lunare-sognata e umanità contadina-artigiana (da salvare senza alcun mezzo), con questo demone scisso e tradito all'interno, con questa apocrifa verità terribile senza pari e senza scampo, si presentò e partecipò quale difficile protagonista e fondatore, eppur facendosi coraggio, al vasto movimento del quinto decennio &endash; assai volonteroso e degno &endash; di risveglio politico-sociale e artistico-culturale della Puglia" (Macrì).
Si stabilisce di nuovo a Roma nel 1960 fino al 1970, anno della sua morte. L'ultima produzione bodiniana, rappresentata da Metamor, è caratterizzata da una denuncia di totale smarrimento di senso perduto, della frattura fra presente e passato, di un definitivamente andato e perduto senza più possibilità di recupero. Guardingo se non ostile è il poeta verso il "boom" economico degli anni '60, del quale intravede lucidamente i pericoli sociali e umani, mostrando evidente il "sospetto" che tutto non sia che un grande imbroglio (che poi si rivelerà in tutta la sua portata anche sotto il profilo economico nel decennio successivo).

L'opera di Bodini
La poesia di questo artista è caratterizzata da un linguaggio ruvido, forte, essenziale anche se discorsivo, anti-decadentista, ovviamente già dalle prime poesie "futuriste". La prima raccolta edita, ha in comune con gli artisti fiorentini degli anni '40 (ermetici fiorentini) la forza e profondità evocativa delle parole e dei concetti, e insieme porta la ricchezza del simbolismo della poesia lorchiana. In La luna dei Borboni, Bodini ricostruisce ambienti e atmosfere del salentino "corroso, arido, vuoto, superstite, assetato, acrono, inerte; è "pietra" che solo l'"alcol" scioglierà alla fine. … tutto "falso", dalla "città" ai suoi "angeli di pietra" (Macrì). Il poeta usa abilmente un gioco di marche semantiche, rime interne,(la rima tradizionale è infatti non cercata), omofonie, nomi e aggettivi ricorrenti nel loro senso e nella loro denominazione, nella ricostruzione dell'ambigua e immobile dialettica, di un contrasto insito nel tutto e nel suo inerte stare che si estrinseca in una serie di coppie antinomiche che potremmo raggruppare nelle caratteristiche luce/ombra, morte/vita, aridità/verde, ecc. La sintesi di questo immobile contrasto, che è anche simbolo della terra salentina, del lavoro dell'uomo e dunque di una sua caratteristica sociale e spirituale, è la foglia di tabacco. Spicca, alla fine della raccolta Foglie di tabacco (1945-47), che introduce La luna, il verso isolato nel quale il poeta si paragona e si identifica spiritualmente in S. Giovanni da Copertino, in quel suo volare (distaccarsi, non sentirsi parte di) e in quel suo carattere "rissoso".
È una poesia dai forti contrasti dunque, che in qualche modo rappresenta l'ambivalenza del poeta verso la sua terra, un Sud intristito da un tempo che si è fermato e che lo schiaccia, dove l'aridità domina ogni scena vivente, riconducendola al paradosso di un'esistenza che non esiste, di una vita di nulla e del nulla. Dal tempo dei Borboni il Sud non è cambiato nella sua essenza. Lo spirito di allora è lo spirito di oggi. Il senso del barocco, del mistero, trasuda dalle case, dalla sua Lecce, nei soli e nelle lune stillanti oro, sangue e vita perduta in un vivere epico e dimenticato, come se la storia lo ingoiasse e senza fine lo risputasse identico. Non soltanto questa metafora possiamo leggere nell'allusione del titolo e nei contenuti dell'opera, ma anche il riferimento del tema "tutto cambia perché nulla cambi", di gattopardiana memoria, anche alla vicenda della neonata democrazia italiana, in senso amaro e disilluso (come poi è detto anche senza veli in sue corrispondenze e prose), che associa parecchi autori meridionali del dopoguerra. Oppure potremmo leggervi anche un sentimento di abbandono, come interpreta anche Macrì nella citazione precedentemente riportata. L'intera opera infatti del Bodini , per la sua ricchezza di simboli e allusioni (merito, credo, della meditazione sulla poesia lorchiana), presenta una polisemanticità davvero ricca che moltiplica le possibilità interpretative, lasciando al lettore un'ampia libertà ermeneutica e una lettura più personale del testo (caratteristica questa, della migliore poesia del '900).
La poesia di Metamor invece, accogliendo anche alcuni diversi spunti stilistici e un diverso linguaggio (più lirico-discorsivo, a volte struggente, meno ossuto del precedente ma più denso di simbolismi surreali di non facile interpretazione), si avvicina a una vena esistenzialista e e una tematica politica e sociale pur importante in quegli anni (ad es. Pasolini, Turoldo, e altri), pur senza toccare mai toni disperati e struggenti che troviamo invece in altri, come la Rosselli. Il poeta assiste sconcertato alla crescita economica disordinata di un'Italia che vuol lasciarsi indietro l'atavica miseria a qualunque prezzo, e sente l'esigenza di fermarsi, di riflettere, di considerare la portata degli avvenimenti che si profilano nell'immediato futuro. Da questo punto di vista il Bodini dimostra (anche in raccolte inedite come Zeta e La civiltà industriale o Poesie ovali)un'acutezza di vedute e una sensibilità che troviamo forse soltanto nel Pasolini dei romanzi o delle raccolte poetiche più "politiche", che sono comunque posteriori a questi versi.

Le poesie di Bodini sono state organizzate, da Oreste Macrì, secondo un criterio temporale e così appaiono nell'opera omnia da lui curata:
a) Poesie edite in vita - La luna dei Borboni e altre poesie (Foglie di tabacco, Altri versi, La luna dei Borboni, Dopo la luna, Via De Angelis, Serie stazzemese, Appendice)
- Metamor (
b) Raccolte inedite in vita (Inediti 1954-1961, Zeta 1962-69, La civiltà industriale o poesie ovali 1966-1970, Collage 1969-70)
c) Appunti di poesie, residue e sparse (Firenze 1939-40, Lecce 1949-44, Dallo "Zibaldone leccese", Roma 1944-46, Spagna-Roma-Spagna 1946-1949, Lecce-Bari 1949-1960, Roma-Versilia 1969-70)
d) Appendice (Poesie futuriste 1932-33



annamariagiannini
00martedì 22 luglio 2014 17:28
grazie fabella per questa lettura, mi sento un poco più ricca
Carla.Aita
00domenica 24 agosto 2014 22:22
Una lettura che richiede un minimo di concentrazione che ora non ho ma ci voglio tornare. Certo perchè voglio spaziare ovunque, in questo mondo. Bella questa cosa di farci conoscere autori!

Carla



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