Scrivere, è l’atto del cercare di convincersi che si possa continuare ad esistere per sempre.
Illudersi che qualcosa di noi possa restare al di là della mera esistenza terrena. Scribeo ergo ero (se il latino ancora mi assiste). Ma è solo il surrogato delle nostre idee a resistere, le apparenze e non ciò che siamo realmente. Quante delle nostre congetture sopravvivranno all’avanzare del tempo? Sarà in grado qualunque nostro scritto di definire esattamente il nostro vissuto? Gli amori? Le intolleranze, le insofferenze o le gioie istantanee, quelle che non si riescono a descrivere neppure a noi stessi.
Sono così effimeri i nostri giorni e siamo così convinti di vivere in eterno che non ci sfiora il dubbio che la nostra esistenza sia solo qui ed ora.
Oppure, siamo così convinti che la nostra esistenza sia solo qui ed ora da farci ignorare che tutto ciò che rimarrà di noi e delle nostre azioni sarà esattamente quello su cui verremo giudicati nel futuro.
Scriviamo ad alta voce perché il vicino possa ascoltarci bene; è necessario urlare perché della sordità abbiamo fatto un status symbol, dimenticando che sono proprio le urla a rendere sordi.
Poi, per ripulirci la coscienza, nelle notti di plenilunio ci travestiamo da agnelli sperando sia la notte più breve dell’anno.
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[Modificato da ili@de 14/05/2014 14:17]