00 03/12/2015 09:38
fossile

metti una mano qui come una benda bianca, chiudimi gli occhi,
colma la soglia di benedizioni, dopo che
sei passata attraverso
l’oro verde dell’iride
come un’ape regale
e – pagliuzza
su pagliuzza,
d’oro e grano trebbiato –
hai fatto di me
il tuo favo di luce

una costellazione di api ruota sul tiglio
con saggezza inumana, un vorticare di intelligenze non si stacca
dall’albero del miele

– sarebbe riduttivo dire amore
questa necessità della natura –

mentre un vuoto anteriore rimargina
tra fiore e fiore senza lasciare traccia:

usa la bocca, sfilami dal cuore
il pungiglione d’oro,
la memoria di un lampo che ha bruciato la mia forma umana
in una qualche preistoria

dove i pazzi accarezzano le pietre come fossero teste di bambini:

avvicinati, come la prima
tra le cose perdute
e quel volto si leva dalla pietra per sorridere ancora

24.5.13

Non conosco l’autrice se non per sentito dire.
Di chi è la voce parlante ed a chi si rivolge?
È il fossile che parla-credo- con voce ancestrale nel poeta stesso.
Il fossile come rappresentante di un mondo solo apparentemente finito ma invece pronto a farsi presente solo che qualcuno creda possibile restituirgli il sorriso.
Cos’è il fossile in fondo se non un residuo pietrificato che affiora dal pozzo della propria storia e chi se non la poesia stessa può rendere l’idea che ciò che vive dentro di noi sia qualcosa che stava prima di noi, migliore di noi?
Eccola dunque compiere il viaggio di un’ape regale dove il target è il cuore di sé. Il passaggio attraverso l’iride non è che l’inizio per liberare, immagine dopo immagine, la luce dalla pietra in cui è imprigionata.
Sono di corona le api, nel loro vorticare sull’albero del miele rivelano qualcosa che sfugge alla conoscenza umana, capace d’imporsi sull’amore stesso e di dominarlo come solo può una divinità, vestendosi di superiore necessità.
Poi l’ultima esortazione.
Il centro vive una morte apparente, la voce proviene da lì, da quel cuore trafitto da un pungiglione nemico –ma sempre della stessa specie- come una montagna incantata che basta sfilargli la spada per restituire alla vita la fanciulla e con lei il sorriso perduto.
L’albore della vita è dunque un sorriso, una luce innocente solo apparentemente distrutta nella figura umana ma capace di rimodellare tutto, in quanto natura universale.
Il fossile dunque come metafora di un io che ha perduto il sorriso (e con esso la sua innocenza), capace di ridare senso a quella pietra accarezzata come una testa di bambino da un pazzo chiamato uomo.
Per recuperarlo alla sua umanità occorre che il volere sia pari alla positività dell’ape regale, capace con la sua inesauribile fertilità di penetrare in una pietra e trasformarla in un favo di luce.
È la poesia, mi chiedo, all’altezza di un simile compito?
L’autrice forse direbbe di sì. Personalmente ho molti dubbi.

Non so quanto di vero ci sia in questa mia interpretazione ma almeno ci ho provato.
ciao franco