Laboratorio di Poesia scrivere e discutere di poesia

Alessandro Ricci

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    00 15/02/2016 09:05
    (autore proposto dall'amica Rosanna)




    di Antonio Devicienti

    La lettura cui stavolta mi accingo muove da due motivi concomitanti: l’uno ha a che fare con un preciso progetto editoriale, l’altro con un autore pressocché ignorato e che merita, invece, attenzione e apprezzamento; sto parlando dell’editrice Coup d’idée Edizioni d’Arte di Enrica Dorna e di Alessandro Ricci, la cui opera è edita in forma antologica sotto il titolo I colloqui di Elpinti.
    Enrica Dorna crede che ci sia una diffusa e intristente disattenzione ai valori reali degli autori e anche, a livello generale, una certa sciatteria nelle edizioni stesse dei libri di poesia, per cui si è inventata un progetto editoriale che vuole curare in ogni particolare opere davvero meritevoli, editandole sotto forma di libri pensati con dedizione in ogni loro aspetto: copertina, grafica, stampa, supporto critico; Coup d’idéé si affida allora alla passione (ma nient’affatto ingenua) e alla determinazione di Enrica Dorna, alla sapienza artistica di Giulio Paolini e al genio critico di Stefano Agosti; uno dei titoli pregevoli e irrinunciabili della collana è questo I colloqui di Elpinti. Alessandro Ricci (Garessio, Cuneo 1943 – Roma 2004) è stato un poeta di grande valore che ha pubblicato in vita due brevi raccolte (Le sagnalazioni mediante i fuochi e Indagini sul crollo) e del quale è apparso il libro postumo I cavalli del nemico, non ottenendo però il riconoscimento che meritava; i testi scelti per la silloge grazie alla decisiva collaborazione dell’amico fraterno e curatore testamentario di Ricci, Francesco Dalessandro (a sua volta poeta di valore), hanno la particolarità di essere composizioni ambientate nell’antichità romana del tardo Impero o nel Medioevo italiano e, soprattutto, di possedere una struttura prosodica, una sapienza linguistica e una potenza sia espressiva che rappresentativa davvero rare.
    Temi che hanno toccato Ricci molto da vicino come persona (l’amore, la quotidianità esistenziale, la malattia, l’approssimarsi della morte) vengono affrontati con il ricorso alla dislocazione dal soggetto scrivente in figure e situazioni dell’antichità, per cui non è forse del tutto errato, leggendo i numerosi testi che hanno come protagonista l’Imperatore Giuliano o lo storico Ammiano Marcellino, interpretare i pensieri e le situazioni quali appartenenti a Ricci stesso; ma questa dislocazione o, come benissimo dice Agosti nel magistrale saggio finale, aspettualizzazione evitano il rischio della confessionalità e del soggettivismo, dell’autoreferenzialità e del patetismo, facendo sì che sia proprio la lingua poetica nel suo armonioso snodarsi di verso in verso a fissare definitivamente l’alto valore dei singoli testi. E se nella tradizione italiana sono molti i poeti che hanno affrontato argomenti “romani”, Ricci spicca per originalità di scelta e forza concettuale perché libera l’immagine che abbiamo della romanità in generale e, nel suo caso in particolare, quella più tarda, da stereotipi e fraintendimenti, mostrandone l’estrema modernità, il portato di suggestioni che si riverberano vivissime sul nostro presente. Logico pensare a Kavafis, ma qui mi preme riconoscere a Ricci una sua coerenza e individualità, specialmente se pensiamo che il poeta italiano lavora sui suoi testi all’incirca negli ultimi trent’anni dello scorso secolo, perseguendo una propria linea poetica e tematica che può trovare degli interlocutori, a mio parere, nelle traduzioni-ricreazioni poetiche dal latino di Pietro Tripodo, in un film come il Satyricon di Federico Fellini, nel progetto poetico di Giovanna Bemporad, nelle sapienti esplorazioni dell’antichità di Luciano Canfora, nel volume collettivo La fisica delle cose (Perrone editore, 2011).
    Caratteristica tonale dell’intero libro è la lieve malinconia che lo attraversa e che scaturisce da un amore totale alla vita e al mondo, espresso sovente in pochi versi, all’interno del testo lungo, materiati di immagini eleganti e d’indubbia forza pittorica. Ecco ad esempio:

    Gli ibis

    Lo schiavo sudanese del porto
    di Massilia, sfinito dai pesi
    e dalla sferza, vede calare
    dall’oneraria un mazzo convulso
    di ali e becchi nella rete,
    e sono atrocemente,
    fra le risate della ciurma,
    ibis rossi della Nubia.

    Per gli eleganti horti dei capi
    trascinati fin qui.

    Lui che li vide accendersi
    nei canali, e volare sui loti
    e le canne in lente
    file al crepuscolo, o intuìti
    altissimi sulla savana, numi
    in quella terra felice.

    Aveva forse dieci anni.

    Quella gran polvere all’orizzonte.
    Chi diceva antilopi dalla Libia,
    invece apparvero le coorti nùmide
    che l’avrebbero preso.

    (pag. 17)

    C’è chi non mancherà legittimamente di pensare all’albatros di Baudelaire, ma fermiamoci a riflettere sulla costruzione del testo, strutturato in una prima parte che descrive realisticamente la condizione dello schiavo e l’arrivo degli ibis nel porto, nella terza strofa tutta accesa dalla bellezza degli uccelli liberi in volo (quel verbo, “accendersi”, ben rende il baluginare del rosso delle piume degli ibis, il suo lampeggiare nell’aria sopra il grande spazio di canali e savana) e nell’ultima parte che è il ricordo della propria cattura. Come facilmente si constata felicità e libertà vengono evocate proprio nella terza strofa, priva del tutto di sentimentalismo, ma percorsa da una bellezza ritmico-prosodica e immaginativa che rende alla perfezione la bellezza di un mondo amato e perduto.
    La bellezza del mondo e del pensiero, dell’arte e dell’amore, assieme al tempo che da essa ci allontana perché sempre più ci approssima alla morte, leitmotiv fondante del libro, sembra suscitare in Ricci un paganesimo che è anche una dichiarazione di poetica e una presa di posizione intellettuale, oltre che esistenziale. Leggiamo prima per intero la composizione che segue:

    La provincia marina di Bisanzio

    Suìda il Tessalico compiva cinquant’
    anni e fattezze neppur corrose
    quando, finalmente un agosto,
    imprese a lavorare nel Tempio
    Nuovo di Cìpride, sulla sponda
    linda del Cirro. Cómpito: il
    frontone che dà sul mare,
    con scene d’amore della dea
    nata dall’acqua.
    I non cristiani di Amisus si
    commossero per l’armonia delle
    forme che cosi velocemente
    Suìda scolpiva: tenui corpi
    fermati nella corsa, il tempo
    rapido nel sasso, l’aumento
    pagano del desiderio.
    Ma quando Suìda dette mano ai
    volti, fu cauto o s’interruppe.
    Incidendo la pietra, turbato
    la cancellava: «Non so ammettere
    un viso meno perfetto per Cìpride
    e meno amaro in Adone nel suo
    punto di addio. E poi torna un
    ricordo che m’ossessiona».
    Così perdeva i giorni
    nell’inquietudine scavando l’anima
    del marmo e la sua. Infine si volse
    al mare dai cavalletti e non lavorò
    più.
    I molti cristiani di Amisus venivano
    alla riva per ridere di lui e della
    fede tardiva nell’idolo, ma l’idolo
    incompiuto lo feriva in cuore
    atrocemente, ed egli non rispondeva.

    Una sera d’autunno priva di vento e
    di nuvole arrivò per mare da Amàstris
    Teodoréto il Vecchissimo, apostata
    per amore, e parlò a Suìda dalla
    nave, perché «Era tempo che
    lo facessi.
    Dimentica la favola cristiana che bella
    è l’anima sola. Ogni bellezza ha
    un’anima, come l’hanno massi e parole
    levigati o animali lisci per gioventù
    e vigore.

    Ricorda pure la tua muta d’Assiria
    e da’ a Cìpride le sue sembianze.

    Ma non temere se per declino e morte
    non le rivedi. Incidi il desiderio,
    sopportane la perdita o il fuoco. In
    questo è l’ultima e prima forza
    degli uomini che periscono.
    Metti su Adone i tuoi occhi riarsi, ché
    sono pure di un’epoca. E non recare altra
    pietra da sovrapporre. Scava quella
    che resta, plasma le facce in concavo,
    come se altri dall’interno del tempio
    o la radice del marmo le vedano
    quali le pensi e furono.
    Coraggio, Suìda. Le
    figure cave, pura formula, anime cave,
    resistono meglio al tempo».

    (pagg. 23-25)

    Ricci sembra non solo aver letto e assimilato i filosofi antichi (in particolare, mi sembra, gli stoici), ma persegue una sua saggezza del vivere e del morire di ascendenza greco-latina e modernissima nelle soluzioni proposte: “gli uomini che periscono” hanno una loro forza (prima e ultima) nel desiderio: “Incidi il desiderio, / sopportane la perdita o il fuoco” (e ricordiamo che il greco γράφειν, che vale “scrivere”, ha il significato originario di “incidere”) e tutta la parabola di Suìda sta nel sottolineare la distanza incolmabile dal monolitismo esistenziale e teologico cristiano (“Dimentica la favola cristiana che bella / è l’anima sola”) in favore di un amore per il mondo che mette in conto anche la perdita e l’assenza. L’umano si giustifica in sé, l’inquietudine dell’artista, per altro deriso, vi dona nobiltà e dignità ed è proprio un “apostata per amore” ad essere capace di scuotere Suìda: il paganesimo morente (tema caro anche a Kavafis) lascia un mondo più triste e povero, se non fosse che quei valori riescono a riflettersi di tempo in tempo, fino, ad esempio, all’arte di Ricci che sembra voler dare vita a “figure cave” tramite l’arte difficilissima del ritrarre “in concavo”, cosicché solo chi è nel tempio o la radice stessa del marmo possono vederle, ma è proprio quello il modo e il momento in cui traspare l’idea sottesa all’opera d’arte, la sua genesi e la sua ragione.

    Il circolo di Messalla

    DI TUTTI I MIGLIORI MIGLIORE,
    LENTULO CI HA LASCIATI.

    SON COSE CHE SI DICONO. SE
    DI QUEST’EPITAFFIO LEVIGHERÀ
    LA PIETRA, COSÌ LA SUA MEMORIA
    IL TEMPO.

    In questa cerchia di falsi nomi,
    lui, chiamato col vero,
    non ha scritto che un verso:

    L’amore è celebrato con l’unghia leggera
    del dito.

    Astenendosi dal dirsi cieco, ci figurava
    belli e bravi dall’angolo, e forse per lui
    l’autore di un distico abbiamo
    moltiplicato per due, di un carme
    per tre.
    Così d’una giornata scura
    gli dicevamo la luce, della modesta
    schiava che fingeva di amarlo
    la dilezione, la non venalità.
    Per lui abbiamo pagato in moneta
    e finzione: la pena degli inverni
    lunghissimi in primavere ventose,
    quella di non dedicarci tutt’interi
    al suo male nel fabbricare
    pseudonimi.
    E così, dividendo la spesa, non
    l’abbiamo capito. Ieri al funerale,
    in un mattino veramente solare,
    con uccelli veramente in volo,
    l’intero circolo di Messalla
    raccogliendo le ceneri nell’urna,
    eravamo pochissimi.
    Proprio come della mano a lui
    che carezzava l’ancella nelle chiome
    bastava invece quell’unghia,
    forse del mignolo,
    forse della sinistra.

    (pagg. 33, 34)

    Quest’arte raffinatissima ed esigente eccelle nella tecnica dell’accenno e del dire a contrario. In un testo esemplare come quello testé letto e un po’ come nel precedente Ricci sembra adottare una sorta di tecnica del negativo fotografico, per cui leggendo bisogna immaginare la copia in positivo, lì erano i volti concavi, qui il mondo inventato per il poeta cieco, ma fondamentale è il concetto di poesia quale uno sfiorare la bellezza con l’unghia del mignolo, concezione aristocratica e non snobbistica, dato che si associa alla consapevolezza che si è in pochi quando si rende omaggio ad un poeta (“raccogliendo le ceneri nell’urna, / eravamo pochissimi”).
    E un altro stilema di Ricci consiste nel rappresentare l’appressarsi della morte, ma come tempo in cui con tenerezza e tenue malinconia, non disperazione né risentimento, si considerano i propri ultimi istanti nel mondo o i ricordi che riaffiorano alla memoria. Nel testo che segue protagonista è Lucrezio, chiara autoproiezione del poeta italiano che, similmente a quanto spesso fa ad esempio Adam Zagajewski, rappresenta i pensieri di un personaggio di fama per guadagnare la giusta distanza e oggettivazione di temi che, trattati in forma di prima persona, potrebbero scadere nel soggettivo e nel patetico:

    Una storia come le altre

    A Marco Fabiano

    E quando a Lucrezio venne la sonnolenza
    che gli era stata annunciata e gli si
    rivelò l’aumento euforico
    delle erbe e dei fiori resi
    scarlatti dal buio,
    segnale esuberante d’un’estate estuosa
    e magnifica in un
    giardino selvaggio fra le città,
    in quella sera, forse notte
    di gialle
    luna e ginestre su lontane
    pendici, l’ocra del suo dolore
    anch’esso divenne giallo, più giallo
    della giallità del croco e del sole
    quand’è potente e leggero, ed egli sentì
    come un’onda di flauto i sospiri di ignoti,
    giovani amanti poco distante, distratti ronzii
    d’api ritardatarie, alcune terse
    memorie degli sguardi che pure un tempo
    l’avevano dimenticato, altre immagini
    miracolosamente ridotte a una, ma
    non ebbe a dolersene, e a quelli
    concesse un bizzarro perdono senza ritorni,
    a questa il dono e l’esattezza del volto
    in uno specchio purissimo, e
    sorrise di tutto,
    degli insulti della plebaglia e dei dotti,
    dell’indecenza e della furbizia, dell’esito
    inutile dei versi, dei tentativi vani
    di rapire un’anima e fonderla
    con la sua, dell’ira chi sa se volontaria
    della madre, dell’avvilimento e del fuoco,
    sentimenti e fatiche: granelli
    della clessidra, parole non oltre
    la punta dello stilo; così il frullo
    d’ali d’un uccello privo di nome tra le fronde
    gli parve il suo stesso volo e non ridisse
    un solo difetto del mondo, perché sentì
    l’assenza totale del desiderio e della pena,
    sofferta a correggere il tempo e l’aspetto
    d’ogni cosa che ci contatta: l’invenzione
    della gentilezza e del tocco,
    delle calamite perfette,
    è impossibile.

    E forse, mentre s’accorse di non
    aver mai pensato così poco e così bene
    – o così poco e basta –, Lucrezio,
    innamorato finalmente delle sue forze
    che se ne andavano, del nulla
    in cui si sarebbe disperso…

    (pagg. 37 e 38)

    Mi piace qui osservare che, sul filo del tema lucreziano, c’è un affiorare di suggestioni leopardiane (la ginestra); se infatti Ricci scrive “degli insulti della plebaglia e dei dotti, / dell’indecenza e della furbizia, dell’esito / inutile dei versi” pensa molto probabilmente anche a se stesso e al destino dei suoi libri, lucrezianamente e leopardianamente non si nega all’arido vero, con filosofica e poetica fermezza si appresta alla propria fine.
    E si noti la bravura di Alessandro Ricci nel costruire lunghi e coerenti giri armonici, contrappunti sintattici che tramite la bellezza dell’architettura e della lingua provocano una partecipazione non epidermica, come è anche nel caso della morte di Guido Cavalcanti, altro testo dalla tessitura linguistica rigorosa e controllata che proprio per questo è in grado di trasmettere tutta la concitata emotività dell’io lirico latore delle “indiscrezioni”:

    Indiscrezioni su Cavalcanti

    I

    – Uccidono Guido!

    Lo grido nei vicoli
    e nelle piazze, alle fontane
    dov’è il viavai dell’acque,
    ai cavalieri che passano
    con le rosse zimarre,
    alle celesti dame.
    La gente che si ferma mi dice
    che non è vero, che non ha
    colpe, che non ho
    colpa.

    – Ma Guido muore! Ieri
    ha scritto col sangue,
    s’è sbiancato alla candela:

    – TU PENSI CHE ARRIVI
    DAL MARE?

    – Poi non ha detto più nulla,
    e c’era molta luna sull’assito
    dell’altana. Ai primi
    colombi dell’alba,
    s’è sporto a guardare
    il sole.
    Io son da solo. Guido
    mastica le mascelle,
    il suo cuore è bellissimo,
    io anche
    ho paura.

    II

    Forse così, in un mattino
    doloso di primavera, nato
    dai versi, salito a rarità
    di suono, a miracoli
    di bianco sulla luce
    di un volo che pure immobile
    e cieco negli istanti
    ultimissimi Guido seppe
    volare e vedere, morendo
    del proprio amore più che
    dell’intransigenza
    e del genio, e finalmente
    sapendolo, come una perla
    di Cina rinvenuta nell’anima,
    stretta in pugno e di pari
    natura, di pari grazia, lei,
    lui, il mare poco
    distante, il mare
    che mescola…

    Forse così l’immoderato
    e miserando amico trovò Cavalcanti
    al ritorno sulla terrazza,
    un poco scivolato
    dalla scranna, gli occhi
    sbarrati in alto,
    chiarissimi,
    più del cielo.

    Nella seconda parte della silloge (ne parla benissimo Agosti nel suo saggio) è lo storico Ammiano Marcellino a profilarsi come interlocutore e dell’imperatore Giuliano (importante, davvero importante proiezione di Ricci) e dell’io lirico; lo storico e scrittore che prosegue l’opera tacitiana narrando con severo equilibrio, tra le altre, le gesta e la morte del suo amatissimo imperatore è interlocutore privilegiato per una riflessione sulle direzioni che percorre l’esistere individuale e sulle connessioni di quest’ultimo con la storia. Accade nel lungo componimento di cui il libro è eponimo:

    I colloqui di Elpinti

    I

    Forse perché
    la giornata è bella, fatta
    la primavera, lucido
    il cavallo, non cigolanti
    le ruote del carro, riparata
    la strada, in fiore
    le messi e qualche
    ventre di fuoco offerto
    per solidi o complimenti,
    poi rosso,
    rosso il miglior falerno
    al buio tiepido
    della notte e dei nostri
    colloqui…
    ———————… o forse perché
    non siamo stati né ingiusti
    né avari o temiamo
    di diventarlo, e quindi perché
    il mattino, il pomeriggio, la sera
    sembrano devoti e noi
    probabilmente
    a noi stessi ed anche – c’è
    chi lo dice – il mese,
    l’anno, volendo
    il decennio…
    ————————-… forse per tutte
    queste latitanti promesse o
    che altro – la bellezza
    del mare? –, perché dovremmo
    temere ciò ch’è stato
    deciso?

    A queste
    o a questa sola domanda
    che ora ti faccio davanti,
    anche se guardi i pesci
    nella vasca e fingi
    di non sentire, e che
    in anni così lontani ti scrissi
    e riscrissi sapendo
    di non essere solo,
    ancora una volta, Ammiano,
    non rispondi,
    non rispondi,
    perché?

    II

    A lancinanti prore
    sul dorso marino,
    a palpabili mete
    sotto
    un’aperta tunica,
    a boe terrestri nei trivi
    o presso
    il fuoco domestico,
    a parole madide
    o false che vogliano
    udirsi,
    alla stella affine
    dei fati notturni,
    alla pena
    e all’odio vandalici,
    ai mercati, al greto
    sulle bell’acque:
    a tutto;
    l’uomo s’avvita a tutto,
    povero Massimiano.

    In tanta notte che s’avvicina,
    poiché ammetti la paura
    e la fine del suono,
    per la tua boria infiammata
    di solitario, accanto ed oltre
    ed almeno
    ti sopravviva e ti basti
    un animale estremamente vivente
    – serpe, falco
    o cane argentati – , insieme

    agli ondeggiamenti del grano.

    (pagg. 39-42)

    La fascinazione che Ricci subisce dal paesaggio viene trasposta in inserti lirici entro testi lunghi, evitando così i capitomboli del sentimentalismo e della descrizione fine a se stessa, anche perché una tale fascinazione è parte integrante del suo amore alla vita, i personaggi che agiscono sono letteralmente immersi nel mondo e ne assorbono ogni particola (luce, odori, suggestioni, spazi e tempi) restituendo in forma di parola tale osmosi; e a questa permeabilità nei confronti delle sensazioni si associa la riflessione e la proiezione verso la morte, secondo l’insegnamento dei filosofi antichi, per cui vivere è prepararsi alla morte, consapevolezza che permette di esistere in maniera cosciente e non superficiale. In questo modo la poesia di Ricci si pone, silenziosa ma perfettamente definita, in opposizione alla mentalità prevalente che predilige il giovanilismo rimuovendo la presenza della morte. Il silenzio di Ammiano, lo storico che ha una visione completa e sicura dei fatti, risuona tragico e inappellabile, per cui questa poesia sembra anche un intrecciare parole contro il nulla e contro l’impermanenza.
    Ma, dicevo, la seconda parte della silloge è sotto il segno di Giuliano detto L’Apostata, colto prima e dopo la battaglia a lui fatale del 26 giugno 363; l’imperatore Giuliano polarizza tutto quello che Alessandro Ricci intende come valore: la cultura, l’esistere secondo la ragione filosofica, l’accettazione della sconfitta (anche quando quest’ultima può essere persino prevista e appare ineluttabile), la serenità di fronte alla morte. Lo storico Ammiano Marcellino è colui che sopravvive al suo imperatore facendosi ponte tra Giuliano e i secoli a venire, tra il tramonto del paganesimo e un’era (i nostri anni) che, in pagine come quelle di Ricci, sono in grado di comprendere e recuperare quel medesimo atteggiamento di virile accettazione del vivere e di amore per la bellezza e il sapere liberato, però, da ogni idea di colpa e di peccato. E allora, se Vetranione anticipa nelle sue riflessioni la disfatta ed esprime la propria devozione all’imperatore, nel testo intitolato Giuliano Ricci scrive:

    Allora Giuliano, dopo
    una notte insonne ma non
    inquieta, all’alba quando
    ogni tenda del campo
    gli parve una duna come
    ben oltre le sabbie,
    infinite a perdita d’occhio, lisciate
    dal levante che le invadeva, le issava
    in un mare di chiaro:
    ——————————————-là:
    percorrendo piano il perimetro
    senza il contegno del capo,
    rispondendo con un sorriso
    al saluto quasi commosso
    delle guardie di turno,
    insonnolite all’ora del cambio
    – saluti e sorrisi così simili
    a quel lontano silenzio vibrato
    nell’aria ferma, così diversi
    dall’uso, così
    nuovi -, pensò alla consapevolezza
    e ai sussurri, a quella morbida
    e rassegnata complicità,
    pensò alle navi
    che s’era bruciato alle spalle
    i cui fumi forse si mescolavano
    al velo gentile dell’enorme
    giornata che si gonfiava,
    ad altri pochi momenti,
    in un solo momento adunati,
    invadente ma non spietato,
    senza rimpianti.
    ——————————–Poi
    pensando a tutti
    i suoi uomini che di lì a poco la tromba
    avrebbe svegliati, si disse piano
    che suoi erano pure l’errore e la colpa
    del destino che li attendeva, ma non
    del suo, cui mancava
    appena qualcosa,
    un gesto,
    per la piena armonia.

    (pagg. 46 e 47)

    La scrittura di Alessandro Ricci si fa qui il “romanzo” di Giuliano, perfetto interlocutore, ma in versi, delle Memorie di Adriano se soltanto ci si fermi a riflettere sul fatto che la cultura antica e alcune figure modernamente “eroiche” continuano a effondere la propria suggestione e vengono innestate dentro una contemporaneità talvolta ostile proprio all’antico, considerato anacronistico e inutile e che quello che Ricci e Yourcenar fanno (ma si pensi anche alla Morte di Virgilio di Hermann Broch, ad Autobiografia del Rosso di Ann Carson) è leggere la contemporaneità tramite la sapienza antica, recuperando il valore dell’autodisciplina e del perfezionamento di sé, considerando la cultura e la bellezza orizzonti necessari di contro all’involgarimento di ogni momento dell’esistere. Probabilmente Ricci ha scontato sulla sua persona l’urto quotidiano con tale involgarimento, ma non ha fatto dell’antico un rifugio né un hortus conclusus, bensì un caparbio interrogare e cercare, se è perfettamente evidente che ogni verso della sua opera si lega con la contemporaneità, vi accenna e la interpreta. Il raggiungimento della “piena armonia” è proprio questo costruire, lento paziente e valoroso, una dirittura di etica e di pensiero e forse a maggior ragione quando la sorte volge al peggio, come nella chiusa dei Cavalli del nemico quando Giuliano vede due cavalli che aveva invano cercato con lo sguardo durante e dopo la battaglia e che sono proprio gli animali montati dai cavalieri persiani che lo hanno trafitto, cosa di cui l’imperatore prende coscienza solo ora:

    (…)
    Fu dal buio che s’allargava, a un’irruzione di gelo nel ritardo,
    quando emersero i due mancanti: erano stati loro, più loro
    di chi li aveva montati, a colpirlo nel petto,
    e vide finalmente l’asta a due punte
    che l’aveva trafitto:
    il primo era un cavallo chiaro, morbido e triste, quasi
    luttuoso. L’accompagnava, serpeggiandogli fra le zampe,
    un gatto vecchio e ostinato: nella bocca sdentata,
    in una presa insicura, la carogna d’un ratto
    troppo grosso, ridotta a poltiglia
    sanguinolenta.
    —————————-Poi l’altro: un puledro aspro e impaziente,
    avido ancora di zuffa, cui s’accodava, a distanza,
    a fatica, forse per caso, un bianco
    cane tremante.

    (pagg. 49 e 50)

    La sera è un vero e proprio poemetto che tematizza la morte dell’imperatore il quale scorge nel grande specchio issato sopra il suo letto le persone che si affannano per svellere il giavellotto che l’ha trafitto e chiuderne la ferita:

    (…)
    ‘Svellere il giavellotto’,
    amarne il cavo: quello
    hanno detto e fatto gli amici
    con morbidezza, di questo avverto
    solo un brusio, quasi
    suono – cembali da quale
    dove? – da parte
    a parte purissimo, piuma,
    su e giù,
    che accarezza i suoi spiragli
    e che m’induce
    da vita a morte
    senza dolore.

    Che c’è di vero in tutto questo?
    Hanno issato uno specchio
    enorme che mi esclude,
    privo solo di me, per rispetto
    di me?
    (…)
    (…), sono
    semplicemente cieco, e se le pupille
    sbiadiscono in albume, come si dice
    che accada, il cuore crescendo
    le sostituisce, fonde
    memoria e invenzione, tutti
    i granelli della clessidra,
    dipinge gli aspetti
    di uomini e cose, liscia
    i contorni, quasi
    li tocca.

    (…)

    Parve a Giuliano invece
    d’essere completa-
    mente solo,
    con quei brani di sé, stati
    o mancanti,
    che una nostalgia sorridente,
    sottilissima e quieta,
    non gli volle tacere.

    (…)
    E allora la conoscenza
    e il dolore. O all’inverso la sofferenza
    e il capire, e l’arrendersi, e il non
    odiare. Così, imperatore deriso,
    ripensò agli inganni evaporati
    ai quattro capi
    del mondo e alle speranze terribili
    (…)
    E tutto gli cominciò intorno
    a girare insieme: testa, corpo,
    mondo… Che intorno
    a che? Non come i molti,
    folli galilei, lui
    non l’avrebbe
    saputo mai

    (pagg. 51-56, passim)

    La chiusa del poemetto, riportata sia nell’immagine che restituisce il manoscritto originale (i versi s’avvitano a spirale a formare un fiore o un gorgo, ché gli ultimi due s’allungano verso il basso della pagina, quasi fossero un gambo o un rivolo che scorre in giù) che nella versione a stampa, risulta essere una sorprendente invenzione di Ricci che, attribuendo ad Ammiano doti quasi medianiche, scrive:

    Mehr Licht… Perché la luce s’irradia
    oltre l’ostacolo? Lo fa anche il pensiero?
    l’amore? L’anima?… Io non devo
    alcun pollo ad Asclepio: devo
    me, nessuno oltre
    me… Je voisun port rempli de voiles et
    de mâts… Non viverti, non
    t’esaltare: consider Phlebas, who
    was once handsome and tall
    as you: fa’ scivolare questi
    tuoi versi estremi
    nel cavo della
    ferita.
    Poi muorine,
    a loro insieme.

    Per tutto il giorno, camminando piano nel campo sotto un sole stranamente velato, mentre gli ufficiali del genio davano ordini quasi sussurrati ai soldati che smontavano le tende, Ammiano sentì ripetersi quelle parole, fino ad impararle a memoria. Vi riconobbe Platone, ma non chi parlava in quella, o quelle lingue strane (pag. 58).

    L’irrompere del nostro moderno e contemporaneo (Goethe, Baudelaire, Eliot…) dentro il tempo antico di Ammiano Marcellino è un’idea straordinaria perché di solito s’immagina il contrario, ma Ricci riesce in questo modo a dare forza sia all’antico presente dentro di noi, che alla grandezza delle realizzazioni della modernità e del contemporaneo che possono dialogare da pari a pari con l’antico; l’idea di tempo concepita dal poeta piemontese è strutturata nel senso della profondità (dal passato al presente e viceversa) e in maniera, come scrive Agosti, “attualizzante”, creando così un medesimo piano di compresenza tra presente e passato dove nessuno dei due viene sminuito a vantaggio dell’altro; questo porta, tra l’altro, ad evitare quello che chiamerei un archeologismo di maniera e una rappresentazione datata e stereotipata dell’antico, né l’antico è un travestimento di sentimenti e pensieri “moderni”, ma un fuoco vivo alimentato dall’amore nei confronti dei classici e capace di illuminare il nostro presente, per cui quello che oserei definire “l’esistenzialismo di Ricci” può delinearsi nel modo seguente, di esemplare saldezza costruttiva e alto valore concettuale ed etico:

    E poi l’editto finale.
    Qui, per fughe dolenti
    alla marina metallica
    giunti
    – il mondo meno
    il nostro,
    meno
    noi – , separati
    flussi e ristagni, amore
    e rinuncia, conoscenza
    e oblio, un perdono
    da un altro, puri
    tronchi e relitti: cose;
    stiamo in quel punto
    vicino al tutto, vicino
    al niente, dimenticati
    dimenticando: sillabe
    di parole, vani
    granelli,
    nell’alba ingenua
    che non li aduna.

    (pag. 61)

    “Obliti / obliviscendi” è cifra oraziana già ripresa da Stefano D’Arrigo nel breve componimento che chiude Codice siciliano: “dimenticati / dimenticando” scrive Ricci che conserva una consapevolezza ferma della morte, come nel testo seguente, impietoso eppure capace di ribadire amori che urtano contro il desolarsi dell’esistere:

    Scendere a volo
    d’Icaro o passo
    d’uomo nel silenzio
    assoluto verso basse
    e bassissime latitudini
    e poi
    quello che c’è
    c’è.
    Là stare, lì
    smettere l’odio
    e l’amore, dire
    le parole dei grandi
    classici in ebeti
    pomeriggi, fra pause
    lunghe di pochi
    suoni, non aspettarsi alcuna
    riconoscenza, alcun
    restare di chi
    si volle, di chi si
    respinse e così, al fondo,
    tra rumori lievi di acque
    che cadono e uccelli che
    salgono, finire
    stupidamente.

    (pag. 67)

    A ragione si può infatti desumere che la strutturazione dei testi si riporti alle ferree e armoniose architetture degli elegiaci latini, perché “dire / le parole dei grandi / classici” non è privo di conseguenze anche sul modellare il proprio stile di scrittura e su di un procedimento compositivo che ha nella sintassi salda e articolata uno dei suoi cardini; ne risulta una poesia colta e limpida, che sa dire le tragicità dell’esistere e incantarsi ad un particolare del paesaggio, così come accade all’explorator che ha guidato la legione in direzione sbagliata, se ne rende conto e prende una decisione tragica, dettata dall’accettazione della sorte e della morte, trovando un ultimo atto di libertà e di felicità che sembra accogliere in sé tutto il senso del vivere:

    (…)
    Non fischiò
    il pericolo ai suoi come avrebbe
    dovuto. Si distese a guardare
    una nuvola lentamente fra i rami,
    tanto era troppo tardi.

    (pag. 73, L’Explorator)

    Potrebbe tornare alla mente la “lezione americana” sulla leggerezza e l’atteggiamento dei filosofi stoici che perseguivano la compostezza anche nella morte, ferma restando la consapevolezza dell’ineluttabilità della fine che Alessandro Ricci sobriamente così mette in versi tramite la figura del centurione Gaviso:

    Accampamento di fine impero

    A Vindonissa d’Elvezia
    il centurione Gaviso passa
    in rassegna le vene del polso
    per trafiggerle col pugnale.

    (Un mercenario vandalo
    porterà il mastello
    con l’acqua calda
    e le tavolette del testamento).

    Esce intanto a guardare
    Vindonissa immune
    dalla tragedia.
    ————————Laggiù si leva
    il fumo delle colazioni
    dalle capanne indigene,
    si mescola al presagio
    che pioverà fra i pini
    anche oggi.

    Al riparo dello steccato,
    gli ausiliari giocano ai dadi.
    I cani della legione
    si contendono le molliche,
    ma non è come sempre.
    Nel tabernacolo
    i comandanti concludono
    che l’anima non sopravvive,
    guardando fisso davanti a sé.

    Le sentinelle hanno portato
    birra sulle torri di legno:
    la cavalleria alla fine
    del turno inviterà i fanti
    a mangiare i cavalli.

    Le puttane siriache
    al seguito dell’esercito
    guidano personalmente
    il carro fuori del campo,
    colmo di doni.
    —————————Fuggono solo
    loro, ché sanno vivere.

    Gaviso infatti
    non ha più niente
    da ricordare, e ritorna
    alla tenda.

    ——————-Domani i Germani
    romperanno da oriente.

    (pagg. 78 e 79)

    Antonio Devicienti


    __________________________________________________ altri testi



    COSÌ

    A S.

    Le parla l’ascolta le dice
    la sfiora la tocca la sente.

    Ma non succede: il sedile alla sua destra
    è vuoto, la cintura che
    le taglia i seni in diagonale, l’uno
    chino per sua dolcezza, l’altro
    in alto levato, così vicino: riaccende
    il loro quieto infiammarsi, quel
    desiderio che li accompagna dall’inizio
    del viaggio – né primo né ultimo
    sia pure nel tempo che finge ma
    non cessa d’esistere anche se loro
    due non ci pensano non ci penseranno
    mai e se lo sanno smettono
    di saperlo –;
    quella cintura non
    (lo vede forte e lo dice piano) non
    avvolge alcuna compagna, è
    ammarata deserta piegata sola.

    A Bressanone-Brixen non esco,
    non esco mai – l’EGLI finisce se
    non c’è LEI –, quella neve eccelsa là
    su, leggera sulle montagne
    è neve di confine, traccia esigua,
    millimetrata: indifferente o ignara,
    cambia lira in scellino, verde in blu
    sui cartelli stradali, rimasugli mediterranei
    in tetti aguzzi, ninnoli da camera, assuefazioni
    domestiche, fedeltà inutili ma non
    apparenti.
    L’onda non solo marina
    che afflisse o ammaliò in sagitte di calma
    le nuche dorate della Scuola Eleatica – la mia
    Ascea, l’Ascea dove s’attende
    chi non arriva – dista mille
    e cento chilometri alle spalle,
    sopravvive forse (o lo chiedo?)
    nella superiore eleganza di quei cavalli
    lontani al pascolo sullo smeraldo.

    Sono vecchio, sono stanco, più
    abbandonato che solo. Altro è il pianeta, ma meno
    l’astronauta di Kubrik finito nel più bianco
    dei secoli, nella stanza
    più trasparente.
    Sarà per questo?
    Sarà per questo che miei
    resti di vita sopravvivono in presunzione
    – mediocre riscatto – nelle curve più strette,
    più buie di galleria, dove
    risupero facilmente chi confida nei rettilinei
    e lì soltanto si sente forte. Ma forse
    è così che si campa.

    A Vipiteno-Sterling bevo l’ultimo caffè italiano
    e mi leggo dentro guardando la tranquilla
    tenacia degli avventori. Sì, lo so: saranno,
    sono stati provati ai funerali di chi,
    di che li amò; ma sono rinati,
    rinasceranno.
    E allora.
    È vanità credermi uno che manca?
    È bastante il conto che pago, la pompa rossa,
    il nero tubo che vedo, la sigaretta che fumo,
    la porta che apro, il vetro che mi riflette in parte,
    e fuori l’uccello intero dal becco strano
    che mi fugge?
    O non esisto? Sto
    dove credo di stare? E se no, dove?
    Sono niente, mezzo, meno? Chi m’ha preso
    tutto, mezzo, più? E se l’ha fatto,
    c’ero?

    Non c’ero.
    Il vuoto dell’assenza
    s’è riempito di cose, persone, forse anche
    parole. Mi sono, sono stato costretto
    ad amare me in loro, LORO che hanno
    invaso il mio posto non occupato.

    Ora LEI. Dunque è lei
    a vedere la penna d’aquila o falco sul cappello
    del tirolese e i calzettoni bianchi e gli scarponi
    unti di grasso animale e il camioncino azzurro
    dei gelati e semifreddi che si sposta quel
    tanto che basta perché possa
    uscire dal parcheggio, e le chiede
    quasi scusa, educatamente,
    confidenzialmente?

    Molto lontano un treno, di nessuno
    dei due, dei tre, di tutti, ma a sé solo
    sufficiente e grato, come pazzo
    della sua gioia, attraversa
    una frontiera più del tempo che
    del luogo, senza fermarsi,
    senza fermarsi,
    così.

    Roma, 15 febbraio 2001

    (inedita)




    A FRANCESCO DALESSANDRO

    Questa piazza grande
    dove l’annata si fa
    più querula ai partenti
    e più insieme che altrove
    s’uniscono gli uccelli migratori
    ai misteri d’Egitto,
    saputo infine lo scacco
    che alla mancanza d’ali
    non supplisce l’immaginario, né,
    a questo, dei versi o un amore
    cui dedicarli;
    la grande piazza,
    che oggi aduna la metà forse
    dell’intero volare
    che c’era ieri,
    è meno spazio che tempo.

    Ho amato la mia città. Il sacro
    odio
    d’esservi vittima e complice
    non la tocca.

    Gli ultimi anni di storia
    non li ho capiti.

    Tra ceffi furenti e astuti, cui
    è disdetta l’inutile, il bello
    che non ripaga, il vero che turba,
    mi spetta una morale decrepita,
    un’arte maligna m’innamora
    dei vecchi intolleranti
    – occhi vitrei, non numerosi –
    che si son dati convegno
    qui nell’alberata, alla seconda
    o terza tramontana d’avvertimento,
    per riascoltare astanti, giusto
    chi va e chi resta,
    quest’ennesimo
    canto pagano.

    Chi ha perso cuore in un viaggio
    brevissimo e decisivo, poi delirando
    s’appaga, autunno dopo autunno,
    a un vero volo d’uccello
    per anima dedicata.

    Le religioni consolatorie
    non inventano amori come questo:
    i mari, i cieli, il quarto
    Sahara che s’avvista,
    insieme e per sempre;
    né l’inferno dell’infreddata,
    che t’inchioda al crepuscolo, quando
    giovani ali ti lasciano una volta
    per tutte a terra, solo,
    sgomberato dalla morte.

    Qui bisogna parlare chiaro, fingere.

    Non ho il coraggio
    di vivere tutta la vita,
    di morire tutta la morte
    nel momento della partenza.

    Prima dell’ultimo baccano evado
    infamato dal serraglio e sturo
    in via Nazionale; non ho avuto
    parole di potenza per i vecchi
    rimasti, non ho amore per me.
    Il quinto
    tramonto che ricordo così diritto
    in fondo, sulla Colonna Traiana,
    è sul sepolcro di Bìbulo. In ore
    come queste Epicuro apriva
    il giardino agli amici, e non
    se ne vantava: semplicemente
    era lieto.

    Dove posso andare fra queste donne
    enormi nelle pellicce, dove la luce
    dalle vetrine è materia, dove
    il desiderio è materia,
    dove l’amicitia, il cor gentile
    là sulla Torre delle Milizie,
    tutto è materia, Checco, ma non
    così com’era allora e per
    contrario che già sapevano,
    e c’era un vuoto pneumatico
    tra i pensieri che lo creavano,
    in un’Attica sospesa
    fra Jonio e Egeo
    come nuvola leggera
    da parole purissime.

    Tra i sei
    e i settecento metri d’altezza,
    gli uccelli che vanno via
    formano e sfanno figure geometriche,
    poligoni nella sera
    che si fa fredda, oscena
    tana di pipistrelli.

    Da Indagini sul crollo, Edizioni del Leone, 1989


    *

    Il dolore ti parla, ma non è
    concesso riferirlo,
    meno che mai alla persona
    che te lo dà.
    Per esempio i Romani decisero
    di bruciare i cadaveri
    e disfarsene fuori le mura.
    La cenere non rimprovera come
    un corpo che si decompone,
    non azzanna.

    ~

    Forse per questo, quando finisce
    un amore, vorremmo sostituire
    il telefono, ardere i mobili
    della stanza, cambiare casa.

    ~

    Il dolore paga tre monete:
    una di ferro, ed è il vuoto;
    una d’argento, ed è la memoria,
    atroce e cortese, della semplicità;
    una d’oro, ed è il pensiero
    della morte, bianco come Venere
    al mattino, come il clamore
    mancante che subissa
    in una marina che
    non si sa.

    da La confessione in Quaderni n.61



    altri link segnalati da Ros:

    http://www.poesia2punto0.com/2013/04/11/temperare-la-punta-alla-morte-una-testimonianza-su-alessandro-ricci-e-sulla-sua-poesia/

    http://www.poesia2punto0.com/2013/04/17/sulla-poesia-di-alessandro-ricci/

    http://cerca.unita.it/ARCHIVE/xml/130000/126913.xml?key=Fabio+B.&first=471&orderby=0&f=fir

    http://www.coltisbagli.it/2008/02/06/poesie-a-pedali-alessandro-ricci/

    robertodeidier.blogspot.it/2015/12/ailanto-n-24-su-alessandro-ri...

    [Modificato da fil0diseta 15/02/2016 09:13]


    fil0diseta_______________________________________________________________________________________________________
    Continuerò a disarticolare ogni cosa, nella vita degli universi, perché il tempo sono io.
    (Antonin Artaud) 
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    Versolibero
    Post: 531
    00 23/02/2016 00:27
    qua ci vorrebbero quattro settimane...
    ma anche se la sposti, prima o poi (più poi che prima) andrò a cercarle in Biblioteca. E non solo queste...

    Grazie Daniela per l'assemblaggio.


    ______________________________________________________________________________
    "Le parole sono 'contenitori' troppo angusti per le mie emozioni e quando, leggendo, le sento 'soffrire'
    o mi segnalano delle 'sofferenze' corro a liberarle senza pensarci due volte per provarne di più adatti".
    (citazione di EEFF)