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Iole Toini

Ultimo Aggiornamento: 24/12/2015 09:35
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16/12/2015 07:46
 
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Il muratore

L’uomo aspettava davanti all’agenzia immobiliare.
Voleva una casa per sé, dei muri caldi e un divano
dove lasciare l’impronta del suo lavoro
senza preoccuparsi di imbrattare i cuscini.
La moglie lo aveva lasciato e i figli li avrebbe
visti ogni due settimane.
Aveva la barba lunga e un segno
scuro sulla guancia sinistra. Dentro le mani, la polvere
delle case che costruiva.
Non sapeva come muoversi dentro quel posto senza odore,
che vendeva le case o le affittava a chi non ne aveva nessuna.
Si dondolava sulle gambe.
Parlava in dialetto, dando del tu come fanno i bambini.
Si è seduto sull’orlo della poltrona che gli hanno indicato,
le mani impiegate sotto il tavolo. Forse aveva vergogna
dei segni neri sotto le unghie.
Ascoltava e ogni tanto annuiva. Con gli occhi
che non stavano fermi cercava la porta.
La moglie lo aveva lasciato, forse perché
gli piaceva farsi un goccetto
all’osteria dove vanno gli uomini che hanno
capelli unti, gli occhi sbeccati e ridono
quando sono pieni di vino
o piangono che non li ferma nessuno.
La moglie forse gli aveva dato dell’ubriacone, uomo senza
famiglia e forse lui le aveva mollato una sberla, le aveva detto parole
che si imparano quando si resta soli, o invece
erano anni che si parlavano solo
per questione di soldi, di figli, di come fare
a mandarli a scuola che non ci volevano andare,
tanto a cosa serviva. Comunque io questo non lo so,
so solo che l’uomo ha preso
le chiavi della casa che per un poco
sarebbe stata la sua.
E’ andato via di corsa.



Se di M.G. Calandrone ne avevo sentito parlare di iole Toini non so nulla. Grazie ancora a Daniela per avermi fatto conoscere anche lei.

Il ritratto è perfetto. Nel senso che va su e giù nell’animo di quest’uomo e lo rende riconoscibile. Persino quel sedersi sull'orlo della sedia è un tratto perfetto.
E’ lo stesso meccanico che mi ripara le gomme, stesso nero nelle unghie, stessa identica parola dura alla moglie che alla fine se n’è andata.
L’agenzia immobiliare è solo un pretesto, di quelli che i poeti cercano per scomparirci dentro e non aver timore di osservare e immaginare la realtà che sta vivendo. Si perché qui nulla è definitivamente vero, nemmeno la storia della sberla e dell’osteria e dell’ubriacarsi , ridere e piangere, ma tutto è straordinariamente possibile e tutto si regge sul dramma di fondo, di cercare una casa perchè l'altra è persa, insieme alla famiglia. Quanta è vera questa cosa e quanto ci sarebbe da piangerne.
La storia, quella vera e quella immaginata, calza a pennello sul personaggio, su come la casa sia cardine della propria esistenza, centro esatto della sua libertà. Averne una in cui riposare senza problemi legati alle relazioni con l’altro. Sì, perché c’è anche questa contraddizione, di desiderare le mura, i cuscini e dove posare gli scarponi sporchi,l’oggetto insomma senza nessuno dentro, rinunciando alle discussioni sull’ordine e la pulizia. Concetti che se finiscono per prevalere si intrecciano mortalmente a quelli sui soldi, i figli, la scuola dei figli e allora addio allo stare insieme, inizia la solitudine o meglio giunge alla sua evidenza precisa e dolorosa di vicolo senza uscita. Ed è questo sentimento che mi arriva di rassegnazione, una specie di elaborazione della perdita della casa nutrita di un'effimera quanto primitiva volontà:

Voleva una casa per sé, dei muri caldi e un divano
dove lasciare l’impronta del suo lavoro
senza preoccuparsi di imbrattare i cuscini.


La chiave giù in chiusa apre definitivamente la porta di questa non-casa dove tutto è lecito ma al prezzo di una condanna senza appello alla regressione e alla solitudine. Metafora che non lascia scampo e che alla sensibilità del poeta non sfugge perché sempre di solitudine umana si tratta. E il poeta qui non giudica, né invita a farlo ma solo ne segnala il dramma quasi fosse comparso da sè nel suo animo per farne poesia:

Comunque io questo non lo so,
so solo che l’uomo ha preso
le chiavi della casa che per un poco
sarebbe stata la sua.


Ciao franco
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