01/03/2019 09:54

Di recente ho avuto uno scambio di "poetica" con Andrea Margiotta. In sintesi, dicevo che secondo me uno dei mali della poesia italiana è un certo residuo ermetico-orfico che a me pare egemone nella vulgata di cosa è poesia presso il pubblico ignaro. La poesia, insomma, come essenza idealizzata, distillata, archetipica. Ho deciso pertanto di prendere in considerazione uno dei suoi testi (da Diario di due estati, 1995) per chiarire le mie posizioni estetiche. Qui il testo (altri antologizzati QUI )

DOPO LA PIOGGIA

La città rischiarata dai lampioni verdi
dopo la pioggia e il silenzio.

Ondeggiano le nuvole d’argento
sulla piazza dove è passato il vento.

Dall’altra parte del ponte
entrano i giocatori nelle osterie.

Zampilla l’acqua dolce da una fonte
oltre i giardini e gli alberi,
sale alle luci ferite degli angeli.

La luna rotola sulle tue gambe,
s’infrange la bellezza
negli specchi dell’estate.

Di nuovo il traffico lungo le strade.

(Andrea Margiotta)

Non si nega la capacità di costruire ritmicamente il verso. Ma dopo? Questo è per me un esempio prototipico di una poesia nata-morta, inerte, schiacciata sulla ricerca di una genericissima piacevolezza. Procediamo con ordine: prima analiticamente, poi tenterò una sintesi. Inizio: "la città": referente generico e sotto-specificato (ma in Luzi, uno dei maestri dichiarati di Andrea, leggiamo "rosse città dei cani afosi", che malgrado la verticalità dell'ipallage suggerisce una geolocalizzazione più precisa, forse di un entroterra del nord-centro Italia, forse Firenze stessa). I lampioni "verdi", scelta anti-referenziale simile a quella che Riffaterre discute analizzando la poesia simbolista (e dunque: di fine ottocento!). Non sappiamo perché i lampioni siano verdi - probabilmente una mera suggestione coloristica. Il "silenzio", assolutizzato, è un'altra facile ricorso al poetico. Sarebbe bastato un "dopo la pioggia e quasi un silenzio" per incuriosire il lettore. Gli stessi elementi archetipici, con l'aggravante di una inversione predicato-soggetto, anti-novecentista a fine novecento, sono al verso 3 (stessa inversione si ritrova al verso 7, dove l'acqua è dolce come in Petrarca, mentre potrebbe invece sapere di cloro e avere insetti morti al suo interno). Ma anche fingendo di accettare la dizione ingessata, resta il problema dell'immagine convenzionale. La poesia si risolleva nel terzo dittico "sabiano", ma è solo una maniera meno urticante. Pura notazione distaccata, elemento che vorrebbe fare atmosfera.
Gli angeli, puro prestito da... Rilke, Rafael Alberti? appaiono nello stesso contesto ornamentale, con effetti, questi si', di "pura superficie" (o e' solo la ricerca della paronomasia alberi-angeli?). La penultima strofa ripesca il topos del femminile lunare, appare una donna (anzi, delle gambe) del tutto non-situata, impreparata dal resto, ma forse tutta da aspettarsi in una sorta di "bulimia" del poetico convenzionale. L'ultimo verso, asciutto, è forse il migliore, perché almeno ha il merito di riportare alla fattualità dopo la lievitazione di immagini di repertorio rimasticate. Ma ormai è troppo tardi.

Certo, ci sono poesie più riuscite, benché simili nella vena, nel link riportato sopra. Ma il punto teorico è un altro: davvero le derive prosastiche, di contenutismo piatto (e oggi ho punzecchiato in tal senso anche Francesca Gironi) si evitano proponendo un semplice negativo? Contenutismo estremo, prosastico, e rarefatta ricerca di piacevolezza sensoriale tolgono entrambi lo stesso ingrediente: il concetto incarnato, la sua articolazione, la poesia pensata come organismo e non come collezione inerte - di poetismi o di luoghi comuni del quotidiano poco importa.